Più di cento opere tra dipinti (una cinquantina), disegni e fotografie inediti sono stati portati dal Messico, anzi da Casa Azul (la dimora dell’artista), al Mudec di Milano per raccontare una nuova Frida Kahlo: non più la struggente storia di una donna martirizzata da un brutto incidente e da un ingombrante marito (il muralista Diego Rivera), ma il racconto di un’artista, di una pittrice che ha scelto l’arte come unica ragione di vita, che ha fatto degli affanni e delle prove a cui il destino l’ha sottoposta la forza della sua ricerca, che ha sentito nelle vene l’emotività del colore, il folklore della sua terra, che ha dato potenza alle sue idee di donna e di guerriera.
La mostra, magistralmente pensata e curata da Diego Sileo, si sviluppa in quattro sezioni, Donna, Terra, Politica e Dolore, ma è anche leggibile come un unico, lungo e struggente racconto intimo e biografico, un inarrestabile viaggio tra sogni, visioni, attimi di vita e desideri negati. La pittura di Frida è passionale e misteriosa, cruda e romantica, istintiva e spietata, allucinata e tremendamente vera: “Non so se i mei dipinti sono o meno surrealisti, ma so che sono la più franca espressione di me stessa, senza prendere mai in considerazione né giudizi né pregiudizi di nessuno”.
La mostra si apre con un carrellata di ritratti di amici, realizzati alla fine degli anni venti, che testimoniano la vivacità dell’ambiente messicano e gli interessi culturali e antropici di Frida: Miguel N. Lira (1927); Alicia Galant (1927); Miriam Penansky (1929), solo per citarne alcuni. Lo stile della sua pittura è già definito e maturo, con forme plastiche ben delineate, con colori pieni e vivaci, con anatomie sgrammaticate, ma solide e risolute. Numerosi sono anche gli autoritratti (fotografici e pittorici) che costellano le diverse sezioni, a partire dal volitivo e severo Autoritratto con scimmietta (1945), fino al bellissimo e doloroso viso che dipinge nel 1948, dai cui occhi sgorgano stoiche e silenziose lacrime.
Le sue condizioni fisiche, notevolmente peggiorate dopo la guerra (che la porteranno a lunghi mesi di ospedale, a sette devastanti interventi chirurgici e poi l'amputazione e l'immobilità), non le permettono di dipingere a lungo e la imprigionano (proprio come quella stoffa plissettata che le incornicia il viso come in un cammeo) in una morsa fisica e psicologica, da cui cercherà sempre di evadere (come quella colomba che si è simbolicamente appuntata sul petto), se non con il corpo almeno con la mente: “Piedi, a cosa mi servono se ho ali per volare?". Momenti di vita che lasciano sulla pelle e nello spirito cicatrici indelebili e che però Frida non ha paura di mostrare perché per lei "Le cicatrici sono aperture attraverso le quali un essere entra nella solitudine dell'altro".