"Fornire numeri certi sul numero di condanne capitali nel mondo è difficile". A dieci anni dalla ratifica dell'Onu alla moratoria universale sulla pena di morte, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, a Tgcom24 su questo tema troppo spesso sottaciuto. "La Cina, il Paese con il maggior numero di condanne capitali - continua Noury - considera questo genere di informazioni un segreto di Stato. Per il momento siamo a oltre cinquecento condannati in Iran, più di cento in Arabia Saudita e Iraq, 48 in Pakistan e altre se ne contano in una decina di Nazioni, tra cui 23 negli Stati Uniti, in aumento rispetto al 2016".
Ci sono dei progressi rispetto a dieci anni fa?
Il numero di Paesi che aboliscono la pena di morte aumenta di anno in anno. Ad oggi secondo il nostro conteggio sono 142, dei quali 105 per ogni reato, 8 per quelli commessi in tempo di pace e 29 sono abolizionisti di fatto, cioè hanno preso impegni internazionali in tal senso o non eseguono condanne capitali da almeno dieci anni. Recentemente la Tanzania ha quasi svuotato i propri bracci della morte e la Corte Costituzionale kenyana ha annullato l’obbigo di condanna a morte per chi si macchia di omicidio o rapina a mano armata.
Che cosa resta da fare?
Ci sono una ventina di Paesi che ogni anno si ostinano a mantenere la pena di morte. Allora sono gli Stati liberi che devono lavorare per cambiare le cose. Mi riferisco in particolare al caso della Bielorussia all’interno del continente europeo. Nel mondo la maggiore concentrazione di Nazioni che adottano queste esecuzioni si trova in Asia. A parte la Cina, in molti casi come in Medio Oriente, queste hanno una derivazione coranica. Tuttavia, il tratto distintivo della pena di morte è che essa è sempre presente in Paesi in cui ci sono altre violazioni dei diritti umani; non è mai da sola.
A proposito della Bielorussia, perché è l’unico Paese del continente europeo che ancora la applica?
E’ il più nostalgico dell’Unione Sovietica, da cui trae direttamente alcune pratiche come la pallottola nella nuca, il non concedere la sepoltura o la mancata restituzione della salma ai familiari. Più in generale, dalla caduta del muro di Berlino ha conosciuto pochissime riforme.
Oltre alla pressione internazionale, come potrebbe farsi strada un cambiamento culturale all’interno dei Paesi che mantengono la pena di morte?
Prima di tutto ci dev’essere un cambiamento nella coscienza dei cittadini. In molti di questi Stati non è nemmeno permessa un’opinione pubblica e di conseguenza è impossibile da misurare. In Nazioni come gli Stati Uniti, invece, il numero di coloro che sono contrari cresce ogni anno. Nel mondo si registra comunque una diminuzione delle nuove condanne.
Quali sono le motivazioni che vi sostengono nella battaglia contro la pena di morte?
Sono ragioni sia di tipo etico sia di tipo pragmatico. In primo luogo crediamo nel diritto alla vita per ognuno; in seconda battuta, nei Paesi che l’hanno abolita non è stata quasi mai reintrodotta.
Quindi la pena di morte non è nemmeno un deterrente efficace?
I Paesi in cui è in vigore la pena di morte hanno tassi di criminalità più alti degli altri. Questo emerge ad esempio anche in Stati confinanti all’interno degli Stati Uniti d’America e accade perché questo tipo di condanne genera violenza. La pena di morte porta ancora più morte.