Nel corso del secondo trimestre del 2017 l’Eurostat ha registrato un nuovo aumento del costo orario del lavoro sia nell’Eurozona che nell’Unione europea, accelerando notevolmente rispetto al primo trimestre. Una notizia che da un lato è positiva, ma che in realtà nasconde anche un fattore destabilizzante, soprattutto nel nostro Paese. Il costo del lavoro, infatti, si ottiene calcolando sia i salari che i costi non salariali, ovvero tutta quella spesa che direttamente o indirettamente va a pesare su lavoratori e imprese.
In generale l’Istituto di statistica della Commissione europea parla di un aumento annuo dell’1,8% per l’area della moneta unica e un +2,2% per l’Ue, contro il +1,4% e il +1,6% del primo trimestre. Entrando nel dettaglio, gli indici mostrano che un notevole contributo alla crescita del costo del lavoro è stato fornito dai salari, aumentati del 2% nell’Eurozona e del 2,4% nell’Unione europea, mentre la componente non salariale ha registrato un +0,8% e un +1,6%.
E’ la parte non salariale a preoccupare nel nostro Paese. Secondo le ultime rilevazioni dell’Ocse il cuneo fiscale (appunto la somma di tutte le imposte dirette o indirette che gravano sul costo totale del lavoro) è pari al 47,8%: quasi la metà del costo del lavoro e distante 12 punti dalla media dell’area, pari al 36%. Il nostro Paese nella classifica Taxing Wages si piazza al quinto posto, facendo peggio solo di Belgio (con il 54%), Germania (49,4%), Ungheria (48,2%) e Francia (48,1%).
Tornando ai dati dell’Eurostat, le ultime rilevazioni mostrano come nel secondo trimestre il costo del lavoro in Italia sia aumentato dello 0,9%, riflettendo l’aumento dello 0,7% che interessato i salari e il +1,4% registrato per le altre voci: proprio il contrario rispetto all’andamento registrato dal dato medio europeo.
C’è da dire, comunque che il nostro non è l’unico Paese dove la componente non salariale ha registrato un tasso di crescita maggiore rispetto ai salari. Tra i nostri principali partner compaiono infatti il Regno Unito (+1,6% per i salari e +3,3% per gli altri costi), la Grecia (+0,6% e +5,6%) e l’Olanda (+1,4% e +2,9%). Mentre in Paesi come la Finlandia e il Lussemburgo la componente salariale ha registrato addirittura una flessione, rispettivamente del 5% e del 6,7%.