SVOLTA STILISTICA

Steven Wilson, nessuna paura di osare: "Guardo al pop ambizioso degli anni 80"

L'artista inglese con il nuovo album "To The Bone" cambia le proprie coordinate stilistiche ma non la voglia di fare musica di alto livello. Ne ha parlato con Tgcom24

di Massimo Longoni

© lasse-hoile

Pop. Per molti in musica è una parolaccia, sinonimo di lavori commerciali senza alcuna sostanza. Non è così per Steven Wilson, apprezzatissimo artista inglese che, dopo anni come paladino del prog e del rock più complesso, con il nuovo album "To The Bone" ha deciso di esplorare nuovi lidi. "Il pop può essere un genere nobile e ambizioso - dice a Tgcom24 -. Pensate a ciò che hanno fatto negli anni 80 Peter Gabriel, Kate Bush o Prince".

Wilson cita gli 80's e il suo cammino sembra lo stesso intrapreso in quegli anni da artisti analoghi al suo percorso: nati e cresciuti nell'alveo del prog e dell'art rock nel decennio precedente e approdati a qualcosa di più simile al pop destinato a platee ben più ampie. Non a caso l'ex leader dei Porcupine Tree cita come punti di riferimento album come "So" di Peter Gabriel o "Hounds of Love" di Kate Bush.

Dopo lavori come "Grace For Drowning" e "The Raven That Refused To Sing", Wilson ha deciso di rendere più "semplice" (le virgolette sono d'obbligo) la propria scrittura. In parte con il precedente "Hand.Cannot.Erase", ma soprattutto con il nuovo lavoro, dove l'accelerazione è brusca e una canzone come "Permanating", che si muove in territori affini agli Abba, rischia di lasciare sulla strada un bel po' di fan della prima ora. Se l'obiettivo era quello di dare una maggiore accessibilità alla propria musica l'operazione il suo risultato l'ha sortito, visto che l'album si è piazzato al terzo posto della classifica di vendita inglese.

In casi come questi parole come "tradimento" e "commercializzazione" sono dietro l'angolo. Ma "To The Bone" è tutto tranne che un disco semplificato e banale. Ed è anche figlio della passione di Wilson per i lavori "a tema": "Insurgentes" ispirato al lato più dark del rock anni 80, "Grace For Drowning" debitore del prog anni 70 e ora il pop, semplice e stratificato allo stesso tempo, di alcuni big degli 80's. "A volte vorrei non essere un fan della musica come sono. Sarebbe bello essere un artista isolato dal resto del mondo musicale e produrre qualcosa di veramente unico - spiega -. Ma non posso cambiare il fatto di essere una specie di studente della storia musicale e sono ancora un appassionato di musica, passata, presente e futura".

© lasse-hoile

Gli anni 80 sono stati spesso bistratti dalla critica e considerati tempi di musica di plastica, da buttare. Forse non era proprio così...
E' probabile che io non sia del tutto obiettivo perché sono stati gli anni della mia adolescenza. Ma la cosa che rende unico quel decennio è che anche la scena mainstream era popolata da dischi che pur essendo pop erano estremamente ambiziosi. Parliamo di artisti come Prince, Kate Bush, Peter Gabriel, Depeche Mode, Talk Talk. Questo dovrebbe essere il pop. Cosa sono stati i Beatles o i Beach Boys se non pop? Sono partito da qui, ma non volevo fare una copia o qualcosa di derivativo. Volevo dare la mia lettura di quel tipo di pop, moderno e sofisticato.

Moderno e sofisticato. Mentre per qualcuno pop è sinonimo di banale e vuoto...
E invece fare una grande canzone pop è la cosa più complicata che ci sia. Perché deve avere diversi livelli di lettura. Deve essere facilmente accessibile, con melodie accattivanti che la rendano facile da godere. Ma poi deve essere sostenuta da un livello più profondo. E questo lo trovi nei testi, nel livello della produzione, nella qualità dei musicisti. 

Nella scena odierna cosa vedi?
Mi sembra che ci sia una divisione netta. Da una parte hai un pop banale, molto conservatore, senza alcun tipo di sostanza. E dall’altra parte i generi considerati più nobili, dal jazz al metal, passando per il progressive e altri generi underground. Niente di paragonabile a quegli anni. Persino Michael Jackson era oltre: un album come "Thriller" oggi sarebbe considerato sperimentale!

Hai fatto riferimento ai testi. Credi siano una delle discriminanti maggiori tra ieri e l'oggi?
Le canzoni pop odierne parlano solo di ragazze, ragazzi, sesso… Non è il mondo in cui viviamo. O meglio, ne è una parte. Le relazioni personali sono sempre parte del nostro mondo, ma ne sono una piccola parte. Non voglio arrivare a dire che sarebbe irresponsabile non raccontare quello che ci sta accadendo ma, per quanto mi riguarda, sarebbe quanto meno strano. Significherebbe non essere da toccati da un periodo storico che è travolgente: estremismi, terrorismo, il problema del clima dopo l’elezione di Trump, la Brexit. Come fai a ignorare tutto questo?

E infatti tutto questo nel tuo album è trattato ampiamente. Però anche in questo hai cambiato qualcosa rispetto al tuo passato... 
I testi sono per forza di cose cupi e dark, come lo sono sempre stati i miei. Ma c’è anche uno sprazzo di luce, altra cosa per il mio modo di lavorare piuttosto inusuale. In questo disco ci sono canzoni che hanno molta gioia e positività. E credo che, in parte, la ragione di questo sia che il resto del disco è veramente cupo e a tratti disperato. Avevo bisogno di vedere l’altra faccia della medaglia.

© lasse-hoile

Da cosa dipende la situazione del pop odierno? Mancanza di artisti di livello o volontà delle major?
Credo sia un problema più vasto, che investe la cultura in generale. Viviamo in un momento in cui la tecnologia la fa da padrona. Passiamo molto del nostro tempo al computer o al telefono. In tv dominano spettacoli come i reality o i talent come "X Factor" o "The Voice", che influenzano quello che poi viene prodotto. Tutti hanno lo stesso modo di cantare, che deriva dall’r’n’b americano. Non puoi distinguere un cantante dall’altro. E il dominio di questo genere è ormai totalizzante. Il rock sembra sempre più relegato all’ambito underground, non influenza il pop come anni fa. Aggiungiamoci il fatto che le radio, che sono uno strumento potentissimo, preferiscono testi non problematici perché non vogliono turbare il proprio pubblico, che potrebbe spegnere o cambiare stazione.

Una volta la musica era considerata come un mezzo per affrontare i mali del mondo, qualcuno addirittura pensava potesse risolverli…
Sì, e non è un problema di generi musicali. L’hip hop oggi va per la maggiore ma quando è nato era un genere di protesta, i testi erano durissimi, carichi di rabbia. Pensa ai Public Enemy. Oggi, con le dovute eccezioni sono di una banalità sconfortante. Sembra che dal pop e dal rock la gente non voglia più determinate cose. Possiamo solo sperare che una nuova generazione di ragazzi incazzati cambi le cose.

Nell’album ci sono due canzoni che affrontano il tema del terrorismo. Tu hai lavorato per anni con Aviv Geffen, un artista israeliano di Tel Aviv. Israele da anni convive con il terrorismo, ora sembra che anche noi europei dobbiamo fare la stessa cosa…
La cosa che mi preoccupa di più è che la strategia del terrore sta funzionando. Lo dimostra quanto accaduto a Torino durante la finale di Champions League, quando si è scatenato il panico per nulla. Tutti noi abbiamo un tarlo che funziona. Io stesso sono sicuro che quando salirò sul palco, in un piccolo angolo della mia mente avrò il timore che possa accadere qualcosa. Così come ogni volta che prendi un aereo o un treno o ti trovi in un luogo pubblico affollato. E questo significa che stanno vincendo. Per uscire da questo tunnel ci vorranno decine di anni. Purtroppo questo è il mondo in cui viviamo ed è molto triste, siamo tornati indietro di anni.

In "Pariah", il primo singolo, dici "sono stanco di Facebook," mentre nella title track parli della relatività della verità. La grossa responsabilità dei social oggi è proprio nella diffusione di falsità che assumono una patina di verità. Cosa ne pensi del loro utilizzo?
Credo sia facile affondare in un contesto come quello. Nick Beggs, il mio bassista, spesso si lascia coinvolgere in discussioni politiche sulla sua bacheca di Facebook. Io me ne tengo lontano. Ci sono molte persone che usano i social per sentirsi qualcuno semplicemente diffondendo odio e rabbia. Se qualcuno viene sulla mia bacheca e scrive che la mia musica è una merda… ok, non sono fidanzato con loro. Ma ci sono altri che reagiscono. Io non lo farò mai.

Credi bisognerebbe mettere dei paletti al modo in cui la tecnologia permea la nostra vita quotidiana?
I social hanno dato modo ad alcuni di diffondere la propria rabbia. Ma non è colpa della tecnologia, è la razza umana che è così. Per il resto sono uno strumento fantastico, posso fare avere ai miei fan in un secondo informazioni che dieci anni fa avrei impiegato giorni, con dispendio di denaro. La gente che ha dentro di sé un lato oscuro troverà sempre un modo di esprimerlo. Non è colpa della tecnologia, ma di come la si usa.