“La società dello spettacolo fu per noi un’intuizione geniale”, racconta Paolo Liguori. Il capolavoro di Guy Debord, pubblicato per la prima volta 50 anni fa, è stato uno dei saggi più influenti nella formazione giovanile del direttore di TgCom24 e di tutta la generazione che, come lui, ha partecipato al movimento studentesco e culturale del Sessantotto.
Ne La società dello spettacolo, Debord criticava alla radice la vita nei sistemi capitalistici, rifacendosi al pensiero di Karl Marx e di marxisti come Gyorgy Lukács. Già nel 1967, individuava nitidamente un meccanismo che neppure si era manifestato in tutta la sua potenza: la spettacolarizzazione della società, per cui ciò che è umano – accadimenti, emozioni, relazioni – sembra esistere solo se viene rappresentato. Alla società borghese dello spettacolo non c’è scampo, sosteneva Debord, ma se ne possono occasionalmente scardinare i meccanismi oppressivi attraverso la creazione di situazioni. E proprio a un gruppo situazionista romano, Gli Uccelli, ha aderito Liguori agli inizi della sua esperienza politica; il gruppo era nato nella facoltà di Architettura della Sapienza, a Valle Giulia, mentre lui era ancora al liceo. “Sono uscito di casa a 18 anni, per andare a vivere in una comune con loro, e non sono più rientrato”, racconta.
“Nel ’68 facevamo contestazioni all’università, segnalavamo come le occupazioni studentesche ricreassero gruppi di potere analoghi a quelli che si volevano abbattere. Leggevamo moltissimo Marx, ma per noi i pensatori più importanti erano Herbert Marcuse, Marshall McLuhan, e ovviamente Debord. Gli ultimi due sono rimasti schiacciati dalla cultura comunista dell’epoca, ma McLuhan è stato profetico. Per me, è stato importantissimo anche Lettera a una professoressa, di don Lorenzo Milani. Mi dirai: “Che c’entra il prete coi situazionisti?” ma lì è teorizzata la scuola di classe, che riflette le classi della società. È su quelle basi che nel ’68 sono state occupate le università”.
Il pensiero di Debord è ancora attuale?
Il mondo dei social network ha capovolto Debord senza smentirlo. Non c’è più la società dello spettacolo “blindata”, con un super-potere che ti controlla e decide se puoi apparire o meno, esistere o meno, ma finisci per controllarti da solo. Oggi tutti hanno l’illusione di potersi auto-rappresentare; in realtà non sanno chi comanda, chi li muove e in quale direzione.
Per esempio?
Se entri sui social da sprovveduto, finisci per credere alle notizie false; se due milioni di persone credono a una notizia falsa, non accetteranno mai l’idea di essere due milioni di gonzi, e si convinceranno di avere ragione. Oppure, se inserisci i tuoi dati su WhatsApp, li stai regalando all’uomo più pericoloso del mondo, che è il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. Leggo che vorrebbe candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti: se lo fa e vince, avremo uno stato totalitario da fantascienza, una dittatura orwelliana.
Esiste una forma di resistenza possibile, a livello individuale?
In questo momento – ma lo diceva già Debord – lo schiavo è talmente contento che schifa la resistenza, e ama il padrone.
Lei fa televisione da più di vent’anni. Si è mai sentito vittima della televisione?
Quasi ogni giorno. La televisione è molto importante ma è terreno di menzogna, ipocrisia, costruzione, illusione. E persino l’informazione può diventare un grandissimo spettacolo, manipolazione di gran classe. Se ho scelto, a fine carriera, di venire a TgCom24, è perché ormai credo solo agli eventi in diretta, sono l’unica verità. Sto ridiventando radicale, com’ero da giovane. Gli spettacoli che fanno ascolto sono quelli che raccontano delle storie ma io detesto lo storytelling, aborro la narrazione. La vita non è storytelling: è fatta di punti, noi viviamo di punti alti e punti bassi. Come esseri umani siamo le stelle, non siamo la narrazione dello zodiaco.
Torniamo al Sessantotto. Qual era la particolarità dei situazionisti?
Per noi era fortissimo il tema dell’individuo, dell’uomo inscatolato dalla società borghese e dai suoi valori: i consumi, la famiglia, la scuola, l’appartenenza a una tribù consolidata. La sinistra comunista voleva destabilizzare il sistema per ri-stabilizzarlo in senso autoritario e statalista; i cattolici, che nelle università erano importantissimi, volevano conservare la società come modello di libertà possibile. Noi non eravamo schierati con gli uni né con gli altri: volevamo sbriciolare la società borghese dalle fondamenta.
Quali forme di contestazione adottavate?
Per esempio, quando le assemblee diventavano un rituale noiosissimo, ci disperdevamo in aula magna e cominciavamo a fischiettare: era un segnale, un po’ alla volta tutti quelli che non ne potevano più si univano e fischiettavano; roba di duecento persone su seicento. A quel punto bisognava interrompere l’assemblea, e cominciavano a dirci “Dai, venite a parlare, diteci cosa volete!”, ma nessuno si muoveva, continuavamo a fischiettare. Per questo ci chiamavano Gli Uccelli – e anche perché ci arrampicavamo sugli alberi di fronte alla facoltà, per provocazione. Al vostro gruppo si avvicinarono anche artisti e intellettuali. Abbiamo conosciuto e frequentato Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Elsa Morante… Il nostro primo e più grande sostenitore è stato Renato Guttuso: durante l’occupazione, lo abbiamo convinto a fare un graffito in stile neoclassico sulla facciata della facoltà di architettura. Era un danneggiamento, l’università ci voleva denunciare ma non poteva, perché era coinvolto Guttuso. Dopo trent’anni, il graffito è stato restaurato e inaugurato come opera sua: in realtà, era stata un’idea nostra, lui ci aveva messo solo lo scalpello, ma è stato un grande. E poi ci ha dato i soldi per comprare un piccolo gregge di pecore.
Che ci dovevate fare, con le pecore?
Le pascolavamo in università. Gli studenti entravano e chiedevano: “Chi sono quelle?”. E gli altri: “Sono le pecore degli Uccelli”. Di notte, le lasciavamo nell’edificio di architettura. Durante gli scontri di Valle Giulia tra studenti e polizia, avevamo una sola preoccupazione: salvare le pecore, che erano rimaste da sole in facoltà senza cibo. In qualche vecchia foto, ci siamo noi che usciamo dall’edificio con le pecore in spalla.
A proposito di foto, ce n’è una notevole con tre di voi appollaiati in cima al campanile di Sant’Ivo alla Sapienza.
È stato dopo lo sgombero delle università romane. Tre di noi si sono fatti accompagnare dall’architetto Paolo Portoghesi a vedere la cupola del campanile di Sant’Ivo; una volta in cima, gli hanno detto: “Noi ci fermiamo qui”. E lui: “Ma siete pazzi? Qui succede un casino, mi denunciano, è pericoloso!” Intanto, noialtri eravamo corsi nelle università e nelle scuole, dicendo che la polizia voleva farli scendere: così, tutto il movimento romano si è radunato in Piazza Sant’Eustachio, vicino al Senato, e ha fermato la polizia. Gli Uccelli sono rimasti sul campanile per tre giorni, contro lo sgombero delle università. È stato forse il momento più “di massa” dei situazionisti italiani.
Quindi le vostre proteste sono continuate anche dopo la fine dell’occupazione?
Certo. Tra maggio e giugno c’era la sessione d’esame e noi volevamo interromperla, perché i problemi che segnalavamo non erano stati risolti. In un capannone dell’istituto di scienza delle costruzioni c’era una grande buca di cemento vuota, che doveva servire per le prove di carico: l’abbiamo impermeabilizzata, abbiamo portato una pompa per cambiare l’acqua, e l’abbiamo trasformata in una piscina. Durante gli esami, ci presentavamo in accappatoio e dicevamo agli altri studenti: “Dai, fa caldo, venite a farvi il bagno!”
Gli Uccelli avevano fama di vandali?
Molte voci su di noi erano inesatte, mitologiche. Ci siamo fatti molti nemici. Gli intellettuali volevano conoscerci: con alcuni, abbiamo fatto amicizia e abbiamo stretto un rapporto… un po’ dialettico, un po’ di presa per il culo. Però non volevamo diventare oggetto di consumo. Facevamo delle visite a sorpresa, nelle case degli intellettuali, e alcuni si sono incazzati. L’allora vicepresidente della Rai, Italo De Feo, ha chiamato la polizia prima ancora che potessimo entrare; ci hanno fatto passare una notte al commissariato, ma non è stato un grosso danno. Più di tutti, ci ha detestati Enzo Siciliano, che a quel tempo era molto legato al giro di Moravia.
Perché Siciliano ce l’aveva con voi?
Eravamo andati a casa sua un po’ allegri. Ci aveva detto “Fate poco rumore, di là c’è mia mamma che riposa”, e invece uno di noi si è infilato a letto con la madre. Per lui era inaccettabile: da quel momento ha usato la sua influenza per diffondere una serie di voci false su di noi.
La storia della cacca sul tappeto…
Non è mai successa. Qualcuno ha raccontato che abbiamo fatto la cacca nel salotto di Moravia ma sarebbe stata una cosa volgare, di una bassezza che non apparteneva a un gruppo come gli Uccelli. Uno di noi si era arrampicato sulla libreria di Moravia, lui e Dacia Maraini si erano incazzati moltissimo, questo sì; poi prendevamo in giro i suoi libri, ma scherzavamo col linguaggio, non con le feci.
A quale intellettuale siete stati più legati?
Per almeno un anno, il nostro più grande amico è stato Carlo Levi. Era senatore, scrittore, ma soprattutto pittore, e ha fatto anche un quadro su di noi. Quando andavamo a casa sua ci mettevamo seduti chi per terra, chi sul tappeto, un po’ da hippy… E a un certo punto ha deciso di ritrarci in quella posizione. Credo che il quadro sia conservato nella Fondazione Carlo Levi; me lo ricordo, vorrei rivederlo.
Come è finita l’esperienza con gli Uccelli?
È stata la fine di un’epoca, più che la nostra. C’era stato il tentativo di declinare un nuovo modello di protesta, di cambiamento. Poi, dopo il ’71, siamo confluiti in esperienze diverse: qualcuno è andato verso mondi artistici, altri verso il solidarismo; in quattro o cinque siamo entrati in Lotta Continua.
Intervista pubblicata su MasterX, periodico del master di giornalismo dell'Università Iulm di Milano