il ricordo

Chuck Berry, l'unico, vero inimitabile e copiato da tutti

L'artista, morto all'età di 90 anni, è stato un talento musicale straordinario ma anche un uomo capace, con le sue parole, di tracciare un affresco d'America

di Andrea Saronni

Per capire - per chi necessita di capire - basta fare una cosa semplice, andare su YouTube, selezionare la casella della ricerca, scrivere "Chuck Berry Cover". Dal risultato, escono tutti, ma proprio tutti: giganti e garagisti, alternativi e mainstream, rocker duri e puri o quelli che passano di lì un attimo. Nel grande puzzle delle influenze musicali che qualsiasi menestrello detiene, Chuck Berry è stato il pezzetto base, la prima pietra, il muro portante su cui poi costruire la grande, immensa e si spera infinita leggenda del rock: lui, e nessun altro che lui, è l'inventore del più caratteristico stile chitarristico del genere, i suoi inconfondibili, squillanti riff a mettere da parte i pur rutilanti pianoforti di Little Richard e di Jerry Lee Lewis, i ritmi, i suoni e le voci comunque ancora levigati di Elvis, Buddy Holly, Billy Haley.

L'ha inventato lui quel lick di chitarra che è diventato un sinonimo del rock'n'roll, che abbiamo sentito e sentiamo tuttora in centinaia di assoli e di canzoni, che ci fa esclamare - pure se non siamo avvezzi - "oh, un pezzo rock vero", è il lick iniziale di Johnny B. Good, e di Roll Over Beethoven, e di Carol, e di School Days, e di tantissime altre canzoni che da un'America lontana e immaginaria si infilavano nelle cantine inglesi, in qualche cameretta dove pischelli chiamati Eric Clapton, Keith Richards, George Harrison imparavano a usare, ma soprattutto a fare parlare una chitarra, affidarle il compito di cambiare una cultura vigente nella musica e nella società, altro che sono solo canzonette.

I risultati - tutti lo sanno - sono stati straordinari, e straordinario è stato anche il fatto che Chuck Berry, nel momento in cui è stata evidente la sua influenza sui Beatles, sugli Stones, o gli Zeppelin, sull'hard venato di sana tradizione degli AC/DC, e persino sul cinema, vedi alla voce Ritorno al Futuro o Quentin Tarantino, Pulp Fiction, You Never Can Tell,  ecco, Chuck non si è mai autoproclamato King of Rock and Roll: non certo per modestia (il soggetto rendeva impossibile la cosa), ma per volontà di stare sul palco, di produrre nuova musica, quello che gli importava davvero - insieme ai dollaroni - era essere al centro dell'attenzione ogni volta che saliva su un palco e accompagnava i suoi fraseggi con quell'inconfondibile "duck walk", il passo del papero imitato da tonnellate di epigoni a cominciare dall'indemoniato Angus Young.

Per quanto riguarda invece Keith Richards, un altro tra i suoi massimi debitori, basti sapere che si vide recapitare un cazzotto in faccia dal maestro per avere osato raccogliere più urla e applausi una certa volta che si unì a lui on stage. Un personaggio incredibile, insomma, regolarmente dotato di vita spericolata fino a un avanzato punto del curriculum. E però, soprattutto, un talento straordinario, un innovatore, un istrione e anche un grande e sottovalutato paroliere: i suoi piccoli affreschi di un'America ancora provinciale, i suoi personaggi pieni di sogni, certe sue immagini hanno ispirato e indicato una via ai giovani rocker per scrivere qualcosa che potesse sempre reggere e completare l'impatto forte delle chitarre, batteria, eccetera. Mick Jagger, ricordandolo su Twitter, ha scritto che i suoi testi "splendevano tra gli altri e gettavano qualche strana ombra sul sogno americano". Effetto di troppa luce, quella luce forte, abbagliante, in cui Johnny B.Goode sognava di vedere scritto il suo nome. E allora, sempre e per sempre, go, Johnny, go, go, go.