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"C'era una volta Studio Uno", un melò con Mina sullo sfondo

TELEBESTIARIO di Francesco Specchia

Nella nostalgia dell’autocelebrazione potevano fare di meglio. In "C’era una volta Studio Uno", lo fiction di Raiuno (lunedì e martedì, prime time) sul varietà che rese la Rai Parnaso della cultura pop, potevano, per esempio, tagliare direttamente le scene della fiction e lasciare quelle del documentario: il balletto su sfondo bianco, l’attrezzeria a vista, gli arabeschi di macchina, le parodie del quartetto Cetra, il Dadaunpa delle Kessler le cui cosce retinate elevavano l’ormone oltre la censura.

Studio Uno è stato un mito, il Beaubourg dell’intrattenimento, la darwinizzazione dello spettacolo televisivo. Comprese le repliche, con Mina, Lelio Luttazzi e Don Lurio e il resto della banda, ha cresciuto l’immaginario di tre generazioni d’italiani. Per questo si rimane spiazzati nel visionare le storie e i destini incrociati di tre ragazzotte, Giulia (Mastronardi), Rita ( Del Bufalo) ed Elena (Buscemi) rispettivamente: addetta al servizio opinioni, sarta dalla voce di velluto e ballerina - senza padre, con madre che adesca toy boys nel bar del convivente -. Tutte figurine ritagliate da un immaginario e dolciastro teleromanzo, roba che stona con la carica eversiva dello stesso Studio Uno, e del suo patron Antonello Falqui, tra l’altro qui ben rappresentato. Non è che la fiction targata Bernabei - un volontario omaggio a Ettore Bernabei, il Re Sole della della grande Rai del periodo - sia brutta. Ci sono tutti gli elementi del melò: la ragazza che vuole emanciparsi e manda all’aria il matrimonio perché cotta dell’aiutoregista; l’aiutoregista che pomicia le bluebelle; la ballerina che le aveva tentate tutte per finire nella prima fila; la sartina che corona il suo sogno; la città ingenua del boom, con le occhiate languide in tram e un traffico decente tra le 600 parcheggiate in via Teulada.

Però io non ho capito bene l’operazione. Se si voleva fare lo storytelling degli italiani di quegli anni, siamo in linea, ma allora bastava e avanzava il Paradiso delle signore (cronologicamente precedente, ma il succo quello è); però, allora, Studio Uno resta una bella macchia sullo sfondo.

Se, invece, si voleva davvero omaggiare Studio Uno ci si doveva concentrare sui retroscena, sogni e veleni del programma; e magari bastava un bel documentario. La scelta, poi,di riprendere la grandezza di Mina solo di spalle sembra molto americana: ma rende l’idea plastica delle mancanza di coraggio...

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