"L'amore e la violenza" è il nuovo album dei Baustelle, in uscita il 13 gennaio. Il loro settimo capitolo discografico contiene dodici nuovi brani che porteranno in tour dal prossimo febbraio. Tgcom24 ha incontrato Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi, che hanno raccontato di aver voltato pagina dopo "Fantasma" e puntato a sonorità pop che abbracciano un periodo per loro affascinante che va dalla fine degli anni 70 all'inizio degli anni 80.
-Parlatemi del nuovo disco. Come è stata la gestazione, come e perchè è nato e come lo concepite dopo aver pubblicato un live che può essere una fotografia dei Baustelle di quello che eravate nel 2015
Uscivamo da un disco ingombrante come "Fantasma", che è stato un esperimento con orchestra sinfonica, poco rock, con pezzi lunghi. Il dopo di una cosa del genere dava un po' di ansia da prestazione. L'abbiamo risolta pensando di andare in tutte le direzioni possibili che non fosse quella già percorsa. E abbiamo pensato di fare una cosa che fosse immediatamente riconoscibile come un disco di musica cosiddetta pop: pezzi brevi, da cliché (strofa-ritornello), più ritmo, orecchiabili. Al di là di questi paletti ce n'è di lavoro che si può fare all'interno della canzonetta per renderla coraggiosa e poco rassicurante. A noi piace la musica pop. Anche se non sono entusiasta di quella che sento in giro. Forse la sfida è fare una musica pop che non senti alla radio. Quello era l'intento di partenza.
-A proposito del vostro suono, che ha sempre avuto un gusto vintage, siete cresciuti, l'andare indietro nei vostri gusti è rimasto ancora agli stessi anni da quando avete iniziato a suonare, o si è spostato in avanti con il passare degli anni?
La categoria del vintage (il bacino di visioni e suoni) che ci ha fatto nascere è una costante. Semplicemente ci sono delle cose a livello di suoni e strumentazioni che rimangono imbattute nella storia, nonostante il progresso vada avanti. Nel mio immaginario di suono ideale, i colori migliori da usare sono quelli. Non è solo una questione di essere modaioli. A noi interessa come importanza nella scelta di un suono rispetto ad un altro. Ed è un po' la carenza che vedo nelle nuove generazioni: ci sono progetti validi, ma c'è poca ricerca e sono troppo portati alla smania del mito del successo immediato. Invece noi siamo nati negli ultimi scampoli in un'epoca in cui la discografia tradizionale era ancora in piedi e ci siamo potuti permettere la nostra ricerca e di fare a meno di questa ansia, che comunque è negativa.
-Non ci sono magari stati cambi di ascolti che vi hanno portato a questo disco. Vi sento più orientati verso gli anni 80...
Ci sono più cose opposte messe insieme, oltre ai riferimenti di sempre. E' un materiale pop e ci siamo divertiti a prendere l'alto e il basso di un determinato periodo. Il disco attinge a un bacino sonoro che va dal 1975 al 1981: c'è la disco music, l'elettronica, la musica prima che diventasse digitale. Un'epoca affascinante e molto interessante, con profonde differenze discordanti, la nascita della disco music e allo stesso tempo quella del prog o dell'elettronica, dall'altra parte, ad esempio. Questo disco cerca un po' di attingere da tutti questi secchi di colore e di riproporli in maniera originale
-Se negli anni 90 c'erano Agnelli e Godano con Afterhours e Marlene, poi siete arrivati voi e i Verdena. Ora chi vedi possano essere i successori. I nuovi portavoce generazionali, più giovani ed equivalenti
Ci sono delle cose buone e valide. Ma proprio perché è cambiato il mercato e l'approccio e il modo di fruire della musica in maniera devastante, questo influisce sulla creazione del cosiddetto mito. C'è una frammentarietà, democrazia, tale libertà di accesso da far sì che il poster in cameretta del mito non esista più. Ci sono tante cose ma tutte molto usa e getta. Per ora non ci sono portavoce perché siamo in un'era di passaggio per cui è difficile che ne escano. Adesso sono tutti molto simili, mentre gli altri citati avevano un loro suono riconoscibile particolare. Troppo facile piacere e oggi si conoscono bene le regole. Sia nel nuovo underground che nel mainstream a livello compositivo vengono utilizzati i soliti accordi. Ma devi avere una visione, un senso. E vedo che dato che va un modo di comporre, tutti fanno quello. E quindi non trovo niente di eccitante.
-Hai sempre avuto un gusto per il citazionismo, e hai indicato spesso riferimenti cinematografici specifici nelle tue canzoni. Per queste nuove ce ne sono?
In questo disco c'è meno cinema e riferimenti. Anche il cinema sta cambiando e si sta trasformando in produzione seriale. Spero però che l'album venga colto come cinematografico senza citare il cinema
-Come decidi cosa raccontare in una canzone?
Non c'è una regola. Noi scriviamo sempre prima la musica per avere una libertà e senza essere condizionati dalla lingua italiana. Sono le parole che si piegano alle melodie sonore che creiamo. E' come riempire delle caselle. Che è inizialmente una gabbia, ma dopo se riesci a trovare la chiave è una soddisfazione maggiore. Penso a un tema e cerco che il tema mi aiuti nella scrittura. E' una cosa molto strana per come nasca l'ispirazione.
-In tutti questi anni di attività e sette dischi, ci sono delle canzoni del passato che vorreste lasciare indietro e a cui non vi sentite più legati o che oggi non sono riproponibili dal vivo? E altre che credete siano ancora vive e pulsino della stessa energia?
Alcune le vorremo tenere indietro per il rispetto di quelle canzoni, soprattutto per il lavoro che ci abbiamo messo nel farle. Altre le continuiamo a suonare dal vivo. Sono quelle che più o meno fai sempre, che metti in scaletta, se ci facessero schifo non le faremmo. "La guerra è finita", ad esempio, mi continua a piacere. Magari ad alcuni brani cambiamo il vestito, portandoli verso quello che sei al momento.