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Silvio Berlusconi: la giovinezza, gli studi e l'amico della vita

Mamma Rosa e il papà Luigi, le due figure che hanno forgiato il carattere di quello che diventerà l'imprenditore e il politico più importante degli ultimi 30 anni

Estratto da "Una storia italiana" pubblicato nel 2001 da Forza Italia

Dal padre Luigi, milanese tutto d'un pezzo, di stampo antico, Silvio acquisisce il senso del dovere, l'amore per il lavoro, la capacità di sacrificio, il rispetto per la parola data. Papà Luigi e mamma Rosa gli trasmettono positività e serenità. Ma l'infanzia del futuro Presidente è segnata dalla guerra. Una tragedia immane che Silvio, come i suoi coetanei, non potrà mai dimenticare.

La gioventù di Silvio Berlusconi

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Il 29 settembre del 1936 nasce a Milano Silvio Berlusconi. L'infanzia la trascorre, però, a Saronno (città originaria del padre Luigi) e poi a Lomazzo.
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Dal 1942 al 1945 Silvio Berlusconi ha vissuto in casa di parenti a Saronno. Il padre era rifugiato in Svizzera, la madre lavorava a Milano come segretaria alla Pirelli e ogni giorno vi si recava col treno
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Nel 1945, finita la guerra, la famiglia finalmente si riunisce e torna stabilmente a Milano. In questo scatto vediamo Luigi Berlusconi (1908-1989), il "papà severo ma affettuoso"; la mamma Rosa Bossi (1911-2008) e anche Maria Antonietta (1943-2009). Di 7 anni più giovane di Silvio, è stata stroncata da malore improvviso a soli 65 anni.
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Silvio Berlusconi studente al ginnasio dei Salesiani. Una scuola dura, ricorda il presidente, ma che ha segnato il carattere dell'uomo. Dopo la maturità classica, Silvio si iscrive alla Statale di Milano, facoltà di Giurisprudenza: si laureerà con una tesi sulla pubblicità con 110 e lode.
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Dai Salesiani incontra quello che sarà l'amico di tutta la vita: Fedele Confalonieri. I due condividono le estati imbarcati sulle navi da crociera Costa e Grandi Viaggi, con il loro quartetto musicale " quattro doctores".
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"Ci imbarcavamo d’estate, per portare a casa qualche soldo -ha raccontato lo stesso Berlusconi -. Di mattina facevo i giochi sul ponte, di pomeriggio la guida turistica anche in città che non avevo mai visitato in vita mia; di sera prima cantavo nell'orchestra jazz, poi di notte, da solista voce e chitarra".

E i ricordi di quel periodo lontano nel tempo lo commuovono ancora oggi: "Facciamo un po' di conti: sono nato nel 1936 e avevo dunque sei anni quando la guerra entrò, disastrosamente, nella nostra vita quotidiana. Poi arrivò il 1943, la grande crisi, la caduta del fascismo, l'8 settembre, i tedeschi, la paura, i bombardamenti. Mio padre era militare al momento della disfatta.

I tedeschi avevano iniziato la caccia al soldato italiano e lui si fece convincere da alcuni suoi amici a riparare con loro in Svizzera. Fece la scelta giusta. Salvò la sua vita e salvò il futuro di tutti noi. Per questa lontananza lui soffrì molto, mia madre soffrì molto. Per me fu uno struggimento devastante, il chiodo fisso dei miei pensieri: papà, il mio papà.

Mia madre si era trovata con due figli piccoli e il peso di due anziani: suo padre e la mamma di mio padre, che manteneva con il proprio lavoro di segretaria alla Pirelli a Milano. Tutti i giorni doveva arrivare in ufficio molto presto, cosa che la costringeva ad alzarsi alle cinque per prendere la corriera che la portava a Lomazzo, dove trovava il treno delle Ferrovie Nord per Piazzale Cadorna, a Milano.

Da lì a piedi fino alla Pirelli. Alla sera, cammino inverso, nel buio. La sua vita era così: ogni giorno avanti e indietro su quella strada, prima con la mia sorellina nella pancia, e poi di fretta alla sera per tornare ad allattarla. E con un ricordo indimenticabile. Quello di vedersi un mitra piantato sul petto e la quasi certezza di lasciarci la pelle. Accadde quando in treno impedì ad un ufficiale delle SS di portar via una signora ebrea destinata al campo di sterminio. Tutti erano paralizzati dalla paura, ma non mia madre.

Afferrò per il bavero l'ufficiale tedesco e si mise a gridare: «Vai via, dì che non l'hai trovata e vattene di qui». Il tedesco incredulo le dette uno spintone facendola cadere e le puntò addosso il fucile: «Zitta tu, o ti ammazzo». Ma lei ebbe il fegato di continuare: «Guardati in giro: se mi spari, tu da questa carrozza non scendi vivo». Allora quello si guardò intorno e vide tutte quelle facce spaventate che erano diventate minacciose, che non si sentivano di lasciare sola una donna con una grande pancia, piccola di corpo ma grande di spirito, che metteva in gioco la sua vita per salvarne un'altra. Il tedesco diventò paonazzo, strinse il dito sul grilletto, ebbe un attimo di esitazione e poi se ne andò. Il treno ripartì, mia madre aveva vinto, ma la tensione, lo spavento la stremarono e l'ultima parte della sua gravidanza ne risentì. Ma seguitò a fare il suo dovere sia in ufficio che in casa.

Mia madre non si è mai vantata di quell'episodio. Lo raccontarono i suoi quotidiani compagni di viaggio. Ero orgoglioso di lei e avevo imparato che se si supera la paura, se si ha coraggio, alla fine si vince". Iniziò in quei giorni una lunga e dolorosa attesa che durò sino alla primavera del 1945. Sino al giorno del ritorno.

"Quando la guerra finì", ricorda Berlusconi, "e cominciarono a tornare tutti quei padri, zii e fratelli che si erano sottratti ai rastrellamenti tedeschi e alla deportazione in un campo di lavoro o nei lager, per me iniziò invece un altro periodo d'apprensione e di attesa. Andavo ogni giorno ad aspettare il trenino che veniva da Como. Lì arrivavano i rifugiati che tornavano dalla Svizzera.

Tornavano in tanti, ma non mio padre. Per un mese ci andai tutti i giorni. Mi arrampicavo su un paracarro che era il mio posto d'osservazione. Poi, dopo tante attese a vuoto, cominciai a stare più lontano. No, non era soltanto pudore, era delusione, era dolore. Volevo poter piangere senza dare a nessuno lo spettacolo delle mie lacrime. Perché il treno se ne andava via e mio padre non c'era. Poi un giorno arrivò. Lo riconobbi da lontano, ebbi un tonfo al cuore, mi scattarono le gambe e con una corsa sfrenata piombai tra le sue braccia. Molti altri bambini non rividero più il loro padre e io fui fortunato. Quel momento mi è rimasto nella memoria come quello più straziante e più felice della mia vita".

Con la fine della guerra, la serenità torna nella famiglia finalmente riunita. Finite le elementari, Silvio frequenta la scuola media e il ginnasio dai Salesiani di via Copernico. È una scuola impegnativa, dove si studia sodo. Il giovane Berlusconi fa i conti con i ferrei regolamenti salesiani: sveglia alla sette, colazione, messa, lezioni, compiti, studio. Unica distrazione concessa da mamma e papà, un film il sabato pomeriggio. Ma dove trovare i soldi? Silvio è intraprendente. L'ostacolo si può aggirare. Diventa assistente dell'operatore del cinema vicino a casa.


Intraprendente, a volte cocciuto, comunque carismatico: in classe e in oratorio è il capo. E dimostra anche un preciso senso pratico: sbriga i compiti prima degli altri, poi aiuta i compagni più lenti o meno studiosi. In cambio di qualche spicciolo. Ma se il compagno non strappa almeno il sei meno, lui restituisce il compenso. Insomma, una specie di "soddisfatto o rimborsato" ante litteram. Dirà più tardi Silvio Berlusconi, ormai padre di cinque figli: "Non si ottiene nulla senza applicazione e senza sacrifici".

Dopo la maturità classica il giovane Berlusconi comunica a papà Luigi che gli studi all'Università vuole pagarseli da solo. Come? Con Fedele Confalonieri, destinato a diventare l'amico di una vita, organizza un complesso musicale, "I quattro doctores". Si esibiscono nei ritrovi studenteschi, alle feste universitarie e private. "Ma mai nei night-club - ricorda Berlusconi con un sorriso - perché eravamo ragazzi di buona famiglia".

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