C'è un paese calabrese, Melito Porto Salvo, che sta purtroppo diventando un caso nazionale a causa di una brutta storia: protagonista una ragazzina che per due anni, dai suoi 13 ai 15 anni, è stata violentata da un gruppo di nove suoi compaesani. I carabinieri hanno messo fine all'incubo ma la storia è proseguita. "E' una prostituta", "anche i ragazzi vanno capiti", sono alcuni dei commenti raccolti dai cronisti tra gli abitanti. E alla fine il sindaco mette sotto accusa pure i media.
La fiaccolata anti pedofili - Partiamo da sabato sera quando l'associazione Meter onlus del prete anti pedofilia Fortunato Di Noto organizza una fiaccolata "contro la violenza sessuale sui bambini, perché è una bambina quella che il branco ha ripetutamente violentata per anni". E don Di Noto difende quella parte di paese che è "scesa in piazza, persone che hanno fatto il loro giusto dovere e che dicono 'no alla violenza', 'no alla considerazione che le bambine se la cercano' che si possa dire in fondo erano ragazzi, e sono ragazzate".
Le accuse ai media - Ma quelle frasi a difesa del branco erano state raccolte nei giorni successivi agli arresti. Le avevano raccontate La Stampa attraverso il reportage firmato da Niccolò Zancan ma anche il Tgr Rai tramite il service per le riprese "Bluemotion" e la giornalista Giusy Utano. E' proprio a loro che il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Meduri, si rivolge. E lo fa nel comunicato ufficiale col quale annuncia di essersi costituito parte civile nel processo contro gli stupratori. In un passaggio scrive: "Il modo in cui certi giornalisti hanno narrato Melito e i suoi abitanti anche utilizzando descrizioni parziali che hanno distorto la realtà e che, dunque, non solo sono scadute rispetto alla stessa finalità del servizio pubblico, ma hanno anche arrecato danno all'intera cittadinanza di Melito, già profondamente ferita e stravolta da una violenza che 'a memoria d'uomo, rappresenta l’episodio più cruento e più cupo che sia mai accaduto a Melito'".
La replica del cdr Rai - Una frase che non è passata inosservata tanto che il Comitato di redazione della Tgr Calabria "respinge con forza gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico. La posizione assunta dal primo cittadino di Melito - è detto ancora nella nota - ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda ha trattato il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici". Abbiamo "fatto parlare" le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. D'altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. 'Sono mancate - ha detto - la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa'".
Uno stupro di gruppo durato due anni - E che sia stato un episodio brutto che ha coinvolto l'intera comunità lo ha fatto capire il gip del Tribunale di Reggio Calabria e del Tribunale dei minorenni. Due anni di violenze sessuali, anche di gruppo, pressioni e minacce a non parlare sotto il ricatto di alcune foto intime e del "nome" di uno dei suoi aguzzini, figlio di un presunto boss della cosca di 'ndrangheta Iamonte di Melito Porto Salvo. Una "vera e propria discesa agli inferi", scrivono i magistrati, nelle pagine dell'inchiesta che ha portato all'arresto di otto persone, tra le quali un minore ed un nono sottoposto all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Schiavizzata dal figlio del boss locale - L'inferno per la ragazzina è cominciato nell'estate del 2013 quando si è innamorata di una ragazzo più grande. Ma lui, approfittando della fragile ed acerba personalità della giovanissima, l'ha costretta ad avere rapporti sessuali anche con i suoi amici ed anche in gruppo. Una situazione dalla quale la ragazzina non riusciva ad uscire, anche perché minacciata con delle foto che l'avrebbero "svergognata" davanti ai suoi ed al paese ma soprattutto, secondo i magistrati di Reggio Calabria, dal nome di uno dei suoi carnefici, Giovanni Iamonte, 30 anni, figlio di Remingo, indicato come un presunto boss dell'omonima cosca, nipote dell'ex patriarca della 'ndrangheta del basso Ionio reggino Natale Iamonte. Un nome, Iamonte, che ricorreva già nella vita della giovane: la madre è dipendente di una ditta che fa capo a Giovanni, mentre il padre ne sarebbe un lontano parente.
Il pestaggio del nuovo fidanzatino scoperchia il caso - Il "branco" arrivava a prelevare la piccola all'uscita della scuola media che frequenta - a "sequestrare" è stato il termine usato dal procuratore aggiunto Gaetano Paci - per condurla proprio dall'uomo. Gli abusi sono andati avanti sino a quando la ragazzina ha conosciuto un altro giovane con il quale ha allacciato una relazione normale. Iamonte ed il suo gruppo non hanno tollerato l'affronto e così, secondo la ricostruzione dei carabinieri, hanno prelevato il ragazzo e dopo averlo condotto in un luogo isolato lo hanno massacrato di botte. L'episodio, però, ha segnato la svolta in positivo per la vita della ragazzina. Dopo il pestaggio, infatti, ai carabinieri di Melito sono cominciate ad arrivare le prime segnalazioni anonime.
Il padre non aveva denunciato ma chiesto l'intervento del boss - Ed indagando sull'aggressione, gli investigatori hanno scoperto che il padre della giovane aveva chiesto "conto" a Giovanni Iamonte della situazione, provocando l'immediata interruzione delle minacce, ed hanno ricostruito il perché era maturata. Una vicenda drammatica per due aspetti: il trauma forse incancellabile provocato alla vittima, ma anche - come ha rilevato il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho - "il sintomo di quanto sia ormai insopportabile la presenza della 'ndrangheta in queste realtà; anidride carbonica pura per chi ha invece bisogno di respirare ossigeno e libertà".
La madre "sapeva" ma non aveva denunciato - Secondo quanto ricostruito la madre della ragazzina sarebbe venuta a conoscenza di quanto stava accadendo alla figlia attraverso la brutta copia di un tema, in cui la giovane raccontava di essere stata lasciata sola dai genitori, perché troppo impegnati con i loro nuovi compagni. La donna si era quindi lamentata con la figlia: "Belle parole che scrivi di noi..." e a quel punto la ragazzina in lacrime aveva raccontato tutto alla madre, che però avrebbe deciso di non denunciare quanto saputo perché temeva il giudizio della gente del posto.