G8, Bolzaneto, scuola Diaz, Carlo Giuliani, Black bloc. Sono tanti i nomi che gli italiani, 15 anni fa, impararono a conoscere. Da allora tutti, ma proprio tutti sanno che cos’è un vertice del G8 mentre prima di allora non era per niente scontato. Da allora tutti sanno che a Genova esiste un quartiere che si chiama Bolzaneto e che lì c’era una caserma. Così come si sa che nel capoluogo ligure esiste un istituto che si chiama scuola Diaz. Da 15 anni il nome Black bloc è famoso come un gruppo rock di quelli bravi. Ma soprattutto un nome e un cognome sono incisi nella memoria collettiva del nostro Paese: Carlo Giuliani.
Chi scrive era là in quei giorni. Molto, molto più giovane, in tutti i sensi. Tgcom.it, che allora non aveva il “24” fu tra le prime testate al mondo a dare la notizia che c’era una vittima. Questo perché assieme a un altro collega, si cercava di raccontare di persona degli scontri cruenti che ci avevano detto esserci da quelle parti, quando girammo per caso un angolo per e ci trovammo davanti un cerchio di polizia attorno a un telo steso per terra. Non si sapeva chi fosse ne cosa fosse successo. Ma con il collega ci guardammo negli occhi e le nostre espressioni dicevano tutto: nulla sarebbe stato più come prima, in quei giorni e per molti mesi a venire.
La sera dei “fatti della Diaz”, a poche ore dalla retata, eravamo proprio dentro la scuola per cercare una presa di corrente con cui ricaricare la pesante telecamera usata per riprendere gli scontri. Sembra incredibile, ma 15 anni fa, solo 15 anni fa, non c’erano ancora gli smartphone e la loro capacità di fare foto e video in HD. Ogni paio d’ore bisognava trovare una presa di corrente per dare almeno una mezzora di carica. In quella mezzora si scriveva e si inviava via Ftp o più spesso posta elettronica i video tagliati con un pesantissimo laptop da 4kg, perché non si poteva riattraversare la città per entrare nella sala stampa: c’era la zona rossa, chi era dentro era dentro chi era fuori stava fuori. Tutta Genova era chiusa e quindi per ricaricare non restavano che le caserme o i presidi dei manifestanti. Nulla faceva pensare a ciò che sarebbe successo. A me, "il pennivendolo di Berlusconi" offrirono anche salsiccia e patatine. Poi purtroppo (qui parla il cronista) ce ne andammo.
Tutti persero la testa in quei giorni. E per chi era lì a raccontare non fu per niente facile mantenere il senso delle cose. Anche perché si era preparati sui temi in agenda del vertice tra i grandi del mondo: l'economia e la politica, soprattutto. Mai ci si sarebbe aspettati di diventare praticamente dei cronisti di guerra, con tanto di scene patetiche come quelle di elemosinare in giro qualcuno che ti desse o ti vendesse un po' di limoni che, lo avevamo imparato sul campo, ci avrebbero aiutato a proteggerci dai lacrimogeni.
Ognuno la pensi come vuole su ciò che successe, non è questa la sede per riaprire vecchi discorsi e ferite. Questo è solo il ricordo di uno dei tanti che c'era e che non può dimenticare: la violenza non porta mai nulla di buono.