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Continua la (lieve) risalita del prezzo del petrolio

La seconda settimana di giugno il barile di Brent è stato scambiato ad un valore che non si vedeva da otto mesi

Il prezzo del petrolio, dopo una serie di sali-scendi, sembra aver imboccato, seppur timidamente, la via del rialzo. Nelle ultime settimane, infatti, le quotazioni dei benchmark petroliferi (il Wti texano e il Brent londinese) hanno segnato lievi risalite, fino a raggiungere il prezzo più alto degli ultimi otto mesi e mettendo momentaneamente fine ad un crollo iniziato nel corso del 2014.

In realtà, si può osservare nelle tabelle del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, un primo segnale di cedimento si ebbe già alla fine del 2013 quando il prezzo medio annuo riportò un calo del 2,75% rispetto al 2012, segnando il primo calo dal 2009 (quando si verificò un crollo dei prezzi di oltre il 35%, legato principalmente all’inizio vero e proprio della crisi economica globale). Dal 2010 in poi, infatti, il prezzo del barile di greggio è sempre lievitato, crescendo a doppia cifra e arrivando a toccare 125 dollari del marzo del 2012, registrando a fine anno un già lieve +0,57% a cui è seguito, appunto nel 2013, il primo calo dopo tre anni.

L’anno successivo la diminuzioni dei prezzi ha riportato una brusca accelerazione mentre nel 2015 si è assistiti al vero e proprio crollo che ha portato i prezzi ai livelli odierni. Nel 2014 il benchmark londinese è passato dai 108,28 dollari al barile di gennaio ai 63,07 di dicembre, realizzando un prezzo medio annuo di 99,26 dollari, in calo dell’8,6% rispetto al 2013. Nel 2015 il prezzo medio è stato invece di 52,42 dollari al barile, in contrazione di ben 47,1 punti percentuali rispetto all’anno precedente e toccando i 38,54 dollari al barile a dicembre.

All’inizio dell’anno in corso sembrava poi che le cose dovessero peggiorare: tra il mancato raggiungimento degli accordi su un possibile congelamento della produzione Opec (accordo scongiurato dai Paesi dell’Organizzazione proprio per far scendere i prezzi a livelli insostenibili per la costa estrazione americana), il permanere della scarsa domanda dell’Eurozona e della Cina, la continua produzione di shale oil statunitense e la revoca delle sanzioni all’Iran (che non ne vuole sapere riguardo un possibile tetto alla produzione), il prezzo è sceso ulteriormente fermandosi intorno ai 32 dollari del primo bimestre.

Ultimamente però qualcosa si è mosso. La tattica dell’Opec di mantenere elevata la produzione per tentare di “metter fuori gioco” lo shale oil americano ha dato i suoi frutti: oggi gli Stati Uniti producono oltre 600mila barili di petrolio al giorno in meno. Fatto sta che nel corso di quest’ultima settimana il prezzo è tonato a salire toccando appunto i massimi da otto mesi a questa parte: oltre i 52 dollari al barile. Tra le cause principali del rialzo una maggiore importazione di prodotti petroliferi da parte della Cina e un calo della produzione mondiale, accentuato dagli ultimi disordini in Nigeria che hanno comportato, solo nel Paese, un calo delle estrazioni di circa 500mila barili al giorno rispetto a inizio anno.

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