Il risultato referendario è una lezione per tutti. Per chi si è astenuto (per scelta politica o per altro) ma anche per chi si illudeva di avere tra le mani un potente strumento di democrazia. Una lezione per chi ha votato sì convinto della spinta rivoluzionaria ed antigovernativa del suo agire, per chi ha votato no, strattonato da convenienze politiche e timori occupazionali. Tutto ha dimostrato che si è votato inutilmente.
Il voto di domenica ha però dimostrato soprattutto la vetustà dell’istituto referendario così com'è concepito in Italia e la necessità di intervenire per cambiarne profondamente le regole.
Innanzitutto la durata della consultazione: non si capisce perché per qualsiasi elezione (amministrativa o politica) le urne restino aperte per un giorno e mezzo mentre per il referendum solo un giorno. In secondo luogo non si capisce perché per il referendum confermativo (quello col quale ci pronunceremo a settembre sulla riforma elettorale voluta da Renzi e Napolitano) non ci sia obbligo di quorum, mentre quasi tutti i referendum abrogativi sono falliti proprio per mancanza di esso. E ancora: perché durante le giornate di voto per le elezioni tradizionali –e nelle 24 ore precedenti- vige il silenzio elettorale e, di fatto, nelle consultazioni referendarie no?
La questione dunque è molto semplice: il referendum deve essere uno solo, uno strumento uguale per tutte le occasioni, per confermare o per abrogare, senza quorum e con le urne aperte per un giorno e mezzo, da abbinare –preferibilmente- ad altre consultazioni politiche o amministrative che siano. Così come è concepito oggi, infatti, il referendum abrogativo premia sempre il fronte del no offrendogli oltre alla possibilità del voto nell'urna, anche la non validità della consultazione in assenza di quorum: ovvero in entrambi i casi –per i contrari all'abrogazione- resta tutto come prima!
Peraltro stupisce che nella foga riformatoria di questo governo, tanto attento ai premi di maggioranza, all'abolizione –finta- del bicameralismo, alla salvaguardia di prerogative di spesa e di rappresentatività degli enti locali, si sia ignorata la necessità di un radicale intervento di ammodernamento dell’ultimo, reale, strumento di democrazia diretta: il referendum, appunto. Quella sì sarebbe stata la vera riforma "di cui il paese ha bisogno"!