La sharing economy, ovvero l’economia della condivisione, sta prendendo sempre più piede in Italia, generando un impatto economico sempre maggiore, sia in termini di risparmio (per chi usufruisce di un bene o un servizio messo in condivisione) che di produzione di vero e proprio reddito (per chi mette in condivisione un bene o un servizio).
Stiamo parlando di un modo di fare economica che si è sviluppato soprattutto negli anni della crisi economica proprio per tentare di usufruire in maniera alternativa – pagando l’utilizzo di un bene (ad esempio di un’auto) e non il possesso - di quei beni e servizi ritenuti necessari dai consumatori. Non a caso uno di questi è il car sharing è uno dei servizi più utilizzati in Italia. Secondo il Censis nell’ultimo periodo ne hanno usufruito due milioni di italiani, il 2% della popolazione totale, una percentuale che sale all’8,4% tra i giovani.
Sebbene la sharing economy si stia sviluppando velocemente, in Italia l’impatto sull’economia reale è ancora piuttosto esiguo, secondo stime (della Credit Suisse) potrebbe aggirarsi intorno all’1% del Prodotto interno lordo, ovvero circa 16 miliardi di euro (In Europa, secondo un recente studio del Parlamento Europeo, la sharing economy vale 572 miliardi di euro).
E’ anche vero che in molti casi - come per Blablacar (servizio basato su passaggi in auto con divisione della spesa) o AirBnb (condivisione di alloggi, stanze o posti letto in cambio, talvolta, di lavoretti o rimborsi spese) – non si realizzano ricavi diretti come può succedere per la vendita di prodotti usati.
In Italia i segmenti maggiormente interessati sono – secondo lo studio Sharing Economy: la mappatura delle piattaforme italiane - il crowdfunding (contando il 30% delle aziende legate alla sharing economy), i trasporti (con il 12%), il turismo (con il 10%) e il lavoro (con il 9%). Il 64% delle piattaforme ha sede nel Nord del Paese, il 22% al Centro e solo il 14% nel Sud d’Italia.
Al di là del successo mediatico riscontrato fino ad oggi, il settore presenta però ancora alcune criticità. Oltre a creare un valore aggiunto ancora esiguo, o comunque difficilmente quantificabile, risulta anche difficile avviare un’attività legata alla condivisione. Basti pensare che nel 52% dei casi, per lanciare il proprio servizio, gli “imprenditori” del settore hanno dovuto utilizzare fondi personali mentre solo una piattaforma in Italia è riuscita ad ottenere un prestito bancario (il 18% ha ottenuto finanziamenti istituzionali mente il 23% finanziamenti da capitalisti di ventura).