Covid, un anno fa a Codogno il primo caso in Italia: in dodici mesi quasi 3 milioni di contagi e oltre 95mila morti
La pandemia nel nostro Paese: dalle prime zone rosse localizzate in Lombardia al lockdown nazionale, fino alla corsa ai vaccini
Coronavirus, dal "paziente 1" di Codogno a oggi: i fatti principali e le immagini simbolo
Un anno fa, il 20 febbraio 2020, l'Italia conosce il suo primo caso accertato di Covid-19. Quando ancora si pensava che il virus fosse troppo lontano per raggiungerci, a Codogno, paese nella Bassa Lodigiana, una dottoressa decide di non seguire i protocolli e scopre così l'esistenza del Paziente 1, il 38enne Mattia Maestri. Il giorno dopo si registra il primo morto da coronavirus.
Mentre il mondo blocca i voli dalla Cina, il virus ha già oltrepassato le Alpi. In pochi giorni, la Regione più popolosa e produttiva del Paese, la Lombardia, entra in crisi: l'emergenza sanitaria, che sembra poter essere gestibile con chiusure mirate e zone rosse, si rivela più violenta del previsto. Dodici mesi di provvedimenti, restrizioni e lockdown, dalla prima diffusione alla "folle" estate, per passare poi alla seconda, e ancor più potente, ondata. E un bilancio che giorno dopo giorno si aggrava e arriva a toccare quota 2.780.882 casi e oltre 95mila vittime.
La Lombardia entra in lockdown totale il primo marzo. Otto giorni dopo tocca al resto il Paese. "Non ci saranno più 'zona rossa' o 'zona 1 e zone 2', ci sarà solo l'Italia zona protetta", annuncia il premier Giuseppe Conte in diretta tv. Chiudono le scuole, i negozi, le imprese. Le persone restano in casa a lottare con il virus o, nel migliore dei casi, le proprie paure. Lungo le strade di Bergamo sfilano i camion dell'esercito che portano via le bare dei morti Covid. In trincea ci sono i medici e tutto il personale sanitario, alle prese con carenza di strumenti, spazi e dispositivi di protezione, che non riescono a frenare l'ondata di pazienti: gli ospedali sono al collasso.
"All'inizio ci eravamo attrezzati per vedere quante mascherine avessimo, le tute e tutto il necessario: lo avevamo immaginato più come un esercizio senza o con poca necessità, un po' alla luce delle esperienze della Sars-Cov1 o sulla Mers e altre patologie che in realtà si è riusciti a controllare. Invece io stesso, perché la sofferenza era tanta, ho aiutato a spostare le salme dalla nostra camera mortuaria alla cappella", racconta il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell'Irccs Galeazzi di Milano. "È successo in tanti luoghi d'Italia, ma viverlo di persona è stata una cosa diversa: è un ricordo che rimarrà indelebile".
La paura ma anche la speranza e la tenacia dei medici. "Quando ho saputo della prima diagnosi, tra me e me ho pensato che in quel momento avevamo bloccato i voli dalla Cina e invece il virus era già qua", ricorda Raffaele Bruno, infettivologo e direttore della clinica di malattie infettive al Policlinico San Matteo di Pavia, che ha curato Mattia, il "Paziente 1". Quando lo ha visto uscire dall'ospedale, "ho pensato che avevamo vinto una battaglia, una grande soddifazione". Proprio oggi si celebra la prima Giornata Nazionale dei Camici Bianchi, istituita per onorare il grande lavoro, impegno e sacrificio del personale medico e sanitario nel corso della pandemia da coronavirus.
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