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Il terrorismo non e' più irlandese

Editoriale da Il Riformista

Londra. War is over. Non ce ne fosse in corso un'altra di guerra, più feroce e più pericolosa, ieri questo slogan sarebbe stato il più giusto per incorniciare le scarne e militaresche parole con cui il consiglio supremo dell'Ira, l'esercito repubblicano irlandese, ha comunicato a tutte le sue unità di deporre le armi dalle 4 del pomeriggio. Dopo oltre trent'anni di guerra, di attentati, di repressione, di lutti e martirio, forse il conflitto anglo-irlandese è arrivato veramente alla fine e con esso la politica della «scheda elettorale in una mano e il mitra nell'altra» che ha caratterizzato l'esistenza stessa del braccio politico dell'Irish Republican Army, lo Sinn Féin di Gerry Adams, vissuto per anni nel cono d'ombra del terrorismo ma capace di imprimere la svolta finale, quella definitiva. Da oggi l'obiettivo della riunificazione irlandese dovrà essere «perseguito con strumenti politici e pacifici», poiché «oggi esiste una via alternativa all'indipendenza dell'Irlanda». Tacciano i fucili, gli stessi che dal 1969 in poi hanno disseminato sangue e bossoli nelle sei contee irlandesi sotto controllo britannico. II comunicato, sulla cui diffusione circolavano voci insistenti da giorni, è giunto subito dopo l'ultimo atto di buona volontà posto in essere da Londra, il rilascio di Sean Kelly, il bombarolo autore della strage di Shankill.

L'ultimo atto di una mediazione lunga, tormentata, spezzettata da mille incrinature, messa duramente alla prova dalle continue sospensioni dell'autorità del parlamento di Belfast figlio della devolution e del Good Friday Agreement e dall'odio che nonostante il tempo continua a bruciare, riempiendo le strade di murales militanti e di filo spinato. Dall'agosto del 1969 in poi, infatti, l'Europa ha avuto nel suo cuore un suo piccolo Vietnam, un piccolo Libano, nel quale la perdita dell'innocenza avveniva per tutti all'atto stesso della nascita, quando sangue e suolo decidevano il tuo futuro. Nascere cattolico in Ulster, negli anni '60, significava essere un cittadino di serie Z, senza diritti, nemmeno quello alla vita. Il fuoco che bruciava le città italiane, francesi, tedesche era nulla rispetto all'incendio che divampò trentasei anni fa nel Bogside, quartiere ghetto di quella Londonderry martoriata proprio in ragione di quel prefisso imperiale.

Per giorni i cittadini cattolici fronteggiarono squadre paramilitari lealiste e polizia nordirlandese, il famigerato Ruc, a colpi di pietre e bottiglie molotov, vennero erette barricate ritratte in mille fotografie in bianco e nero destinate a venire ritagliate e attaccate sui muri delle università o riposte tra i fogli di un diario. Alla fine gli uomini e le donne del Bogside, con in testa la pasionaria Bernadette Devlin, resistettero ed ebbero la meglio: a celebrare quell'impresa resta una scritta murale che accoglie l'automobilista che entra a Londonderry da est: «You are now entering free Derry». E proprio in nome di quella resistenza e della libera Derry che l'Oglaigh na hEireann, il nome gaelico dell'Ira, decise che era ora di porsi alla guida di un popolo stanco di essere sottomesso, di divenire il «poliziotto del popolo», scegliendo il più sanguinario e terribile dei terrorismi.

Cominciarono rappresaglie e i primi attentati dinamitardi, seguiti dall'istituzionalizzazione dei punishment beatings nei confronti dei membri della comunità cattolica che «tradivano»: terroristi e poliziotti, stato e anti-stato, l'Ira incarnava il dualismo bene-male nella sua forma più estrema, impregnata di mitologia celtica e istanze rivoluzionarie comuniste, in un mix che si dispiegava idealmente fino a Cuba, con il volto di Che Guevara che campeggia a Falls Road, arteria repubblicana di Belfast.

Ma l'evento spartiacque, l'accidente destinato a cambiare il corso della storia, era lì dietro l'angolo. Quando i130 gennaio 1972 un plotone di paracadutisti dell'esercito britannico aprì il fuoco su una manifestazione per i diritti civili a Londonderry uccidendo 14 civili, l'anima dell'Ira si tinse di nero e decise che da quel momento ogni mezzo era lecito per combattere l'invasore. Il «Bloody Sunday», celebrato dagli U2 nella loro più celebre canzone, sancì il passaggio allo stragismo su larga scala: non più poliziotti, militari e giudici ma donne, uomini, bambini. Passarono pochi mesi e il 30 luglio la rappresaglia fu portata a termine: 26 autobombe scoppiarono in diverse zone di Belfast uccidendo 11 persone e ferendone 130, il «Bloody Friday». La pietà era morta.

Seppellita dall'odio e dalla rabbia, violentata definitivamente i121 novembre del '74 quando l'Irish Republican Army cominciò a esportare il terrore sul territorio inglese, a Birmingham. Erano pieni di giovani intenti a bere e sorridere, il Mulberry Bush e il Taver in the Town, qualcuno stava baciando la donna che amava, qualcun altro tirava freccette. In un istante 21 di loro furono spazzati via dall'esplosione di due bombe dell'Ira, la morte entrava al pub dalla porta principale sotto forma di «corriere», un tipo normale, the usual bloke, che varca la soglia, ordina da bere e abbandona una borsa di pelle nera sotto il tavolo. Pochi secondi e l'inferno dell'Ulster entrava nelle placide e vittoriane case dell'invasore.