“Vogliamo l'educazione digitale a scuola!”: a chiederlo non sono né gli insegnanti né i genitori ma direttamente i ragazzi. È questo il messaggio di fondo che si può ricavare dall'indagine condotta dall’Associazione Nazionale Dipendenze tecnologiche, GAP e cyberbullismo - in collaborazione con il portale Skuola.net e con VRAI (Vision, Robotics and Artificial Intelligence – Dipartimento di Ingegneria Informatica dell’Università Politecnica delle Marche) – su un campione di 3.115 studenti di età compresa tra gli 11 e 19 anni, in occasione della IV Giornata Nazionale sulle dipendenze tecnologiche, GAP e Cyberbullismo di sabato 28 novembre. Il 77% degli intervistati vorrebbe approfondire il tema educazione digitale, perché i rischi sono dietro l’angolo anche in Dad.
Approfondiamo il nostro rapporto con le tecnologie
Al 77% degli intervistati, infatti, piace l’idea di poter studiare e conoscere sempre meglio la complessità di questa materia. Oltre il 60% vorrebbe un’App che gli faccia sapere se sta usando lo smartphone nel modo corretto, quasi il 36% dice che potrebbe essere utile un’App con cui gestire meglio il confronto genitori-figli sull’uso dello smartphone. Ma perché vorrebbero l’introduzione di questa materia a scuola? “Di fondo - osserva Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario, e presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te. - i ragazzi stanno chiedendo a noi adulti, genitori, insegnanti, educatori, di prenderci cura della loro vita. Nell’educazione digitale rientrano anche temi come la sessualità, l’identità sessuale, per esempio, di cui non si parla più tanto e di cui, invece, i ragazzi vogliono sapere. Introdurre l’educazione digitale, considerando tutte le sfumature che può avere, potrebbe essere uno strumento di supporto a tutti i cambiamenti che inevitabilmente ci troveremo ad affrontare. Non solo sociali, relazionali, ma anche lavorativi da qui in avanti”.
La pandemia ha aggravato la situazione
Tutto questo è figlio di quanto vissuto soprattutto negli ultimi mesi. Anche per i giovanissimi, specie per i più 'fragili', sono stati particolarmente provanti. Dalle loro risposte, infatti, emerge ad esempio, come siano in aumento i casi di autoisolamento tra chi ha subito fenomeni di cyberbullismo: uno su 8 ne è stato vittima in almeno un'occasione da febbraio a oggi. Tra questi, in media il 67% (il dato varia a seconda dell'età) tende a chiudersi in sé stesso. E, complici gli effetti della pandemia sulla psiche e la maggiore esposizione alle piattaforme social o a quelle di apprendimento a distanza, cresce anche il numero di ragazzi che non riescono a immaginare per loro un futuro: rispetto a un’analoga rilevazione effettuata a giugno si registra un +20%.
La scuola digitale apre il campo ai bulli
A tal proposito, una riflessione sulla didattica a distanza è obbligatoria. “Va assolutamente considerata come una soluzione di emergenza – fa notare Daniele Grassucci, direttore e co-founder del portale Skuola.net - sia perché non siamo realmente pronti sotto vari punti di vista (connettività, dotazioni tecnologiche, formazione dei docenti, metodologie didattiche, ecc.), sia perché manca un elemento fondamentale della relazione educativa: la presenza fisica. E come sui social è ormai assodato che l’immaterialità della relazione digitale ci libera da tutta una serie di freni inibitori scatenando fenomeni feroci come l’hate speech o il cyberbullismo, anche nella Dad si replica una dinamica simile, per cui sono enormi le percentuali di studenti che si sentono liberi di prendere in giro altri compagni o i propri docenti. Fenomeni che di sicuro avvengono anche in classe, ma non ci risulta in queste proporzioni”.
Anche gli insegnanti nel mirino
Proprio così: due intervistati su 5, ad esempio, hanno assistito a prese in giro nei confronti degli insegnanti; uno su 5 verso altri compagni. “Quelli che i ragazzi credono essere scherzi – aggiunge Lavenia - in realtà sono atti aggressivi: la messa online o in chat di una foto e/o di video senza il permesso dell’altro è cyberbullismo, e queste immagini rischiano di rimanere nel web per sempre, con tutte le conseguenze immaginabili. Le cronache, anche recenti, sono piene di queste situazioni".
Chi subisce tende ad autoisolarsi
Basta osservare la reazione delle vittime. A seguito di episodi di cyberbullismo, il 45,9% degli intervistati nella fascia di età tra gli 11 e i 13 anni, il 53,4% dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni, e il 65,9% dei giovani tra i 17 e i 19 anni dice che vuole rimanere chiuso in casa. Aumenta, quindi, l’autoisolamento e probabilmente è destinato a produrre i suoi effetti ancora a lungo. “Questo fenomeno – spiega Lavenia – solitamente si verifica per due motivi: la mancanza di prossimità con l’altro e il trauma subito. Attualmente viviamo in un periodo dove sono presenti entrambi. Gli effetti della pandemia stanno lasciando strascichi di paure enormi. Adulti e ragazzi hanno paura di uscire di casa, sta mancando da tanto tempo il contatto con gli altri: tutti fattori che non faranno abbassare il bisogno di autoisolarsi”.
Vogliamo una corretta educazione digitale
Sfruttare la tecnologia potrebbe aiutare. Ai giovani, infatti, tutto ciò che è digitale piace ma si stanno rendendo conto che per quanto siano bravi ‘smanettoni’ hanno delle difficoltà che non sanno gestire, nemmeno con l’aiuto degli adulti (quando vengono interpellati), perché anche la maggior parte dei grandi non ha ricevuto un’educazione digitale. “La GenZ – puntualizza Grassucci - si è accorta che i social non sono un gioco da ragazzi: quasi 2 su 3 accoglierebbero a braccia aperte un’App per verificare se stanno usando bene i propri dispositivi, circa 4 su 5 gradirebbero lezioni di educazione digitale a scuola. E tra gli studenti delle medie (di età compresa tra gli 11 e i 13 anni), l’esigenza è sentita dall’83% dei partecipanti al sondaggio”.
Manca il confronto con i genitori
Ma se i ragazzi chiedono un luogo digitale che preveda, tra le altre cose, un confronto genitori-figli sull’uso dello smartphone, la domanda è lecita: la parola, il contatto e il confronto vis à vis con gli adulti, che fine hanno fatto? “C’è, ma tutti questi elementi importantissimi della vita reale non vengono utilizzati in tutta la loro potenzialità e a volte vengono usati non in modo adeguato. I ragazzi chiedono ancora confini e limiti, anche se in apparenza non sembra così, e li chiedono per sentirsi protetti. Ecco perché pensano che affidandosi al mezzo tecnologico possano essere poi compresi meglio dagli adulti, che spesso non hanno ancora ben chiara la via di mezzo tra l’analogico e il digitale. L’App è come se fosse una sorta di mediatore familiare. Di certo sarà utile, ma nel contempo dovremmo lavorare anche sulla genitorialità e sulla comunicazione in famiglia, per sviluppare di più l’empatia, il problem solving, la gestione del tempo insieme e tutti gli altri aspetti che possono contribuire a migliorare le relazioni”, conclude Lavenia.