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Terremoto in Irpinia, quarant'anni dopo la ferita è ancora aperta

Alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980 un sisma di magnitudo 6.9 della scala Richter distrusse interi comuni in Campania e Basilicata, causando quasi tremila vittime, 8.848 feriti e 300mila sfollati

Terremoto in Irpinia, a quarant'anni da quel terribile 23 novembre 1980

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E' difficile spiegare cosa si prova quando la terra comincia a tremare. E a farlo sempre più forte. E' difficile descrivere con le parole la terribile vista del terremoto radere al suolo edifici e speranze, vite, il tuo paese, la tua famiglia. A quarant'anni da quel tragico 23 novembre 1980, il sisma dell'Irpinia è una ferita ancora aperta: per una ricostruzione non ancora completata, per una riqualificazione di fatto mai intrapresa, per i ricordi strazia(n)ti di chi in 90 secondi ha perso tutto. Perché alle 19:34 di una domenica in apparenza normale un sisma di magnitudo 6.9 della scala Richter fratturò anima e ossa di Irpinia Basilicata, causando quasi tremila vittime.

Nello spazio di un minuto e mezzo piccoli e piccolissimi Comuni, un autentico patrimonio italiano, sono stati polverizzati: una tragedia umana enorme segnata da quasi novemila feriti (8.848) e 300mila senzatetto. Al di là dei numeri, il terremoto lasciò martoriate Campania e Basilicata e allargò la sua onda ai vicini Molise e Puglia, fino alla Pianura Padana a nord e alla Sicilia a sud. A quarant'anni di distanza, il ricordo di quella giornata e delle settimane che seguirono, caratterizzate da uno Stato impotente dinanzi al disastro, incapace di coordinare i soccorsi, tardivi e insufficienti nonostante lo sforzo immenso messo in campo dai volontari, è tutt'altro che sbiadito.

La testimonianza: "L'edificio si muoveva, ho stretto forte mio marito e mio figlio" - Si parla spesso della forza delle testimonianze. Ma come fare a misurarla? E' una questione di polso: più accelera, più la storia è potente e deve essere raccontata. "Solo a ricordarlo, rabbrividisco". Non l'avevo mai sentita parlare così la donna, oggi 86enne, che mi aveva abituato a toni ben più rassicuranti e dolci. Perché, sì, la donna in questione è la nonna di chi scrive: la professoressa Magda Del Secolo, nata e cresciuta a Melfi (Potenza), cittadina che ha sperimentato in pieno la forza distruttrice del terremoto. Ha avuto davvero paura di non farcela, la sera di quel 23 novembre: "La scena che non dimenticherò mai è stato l'abbraccio con tuo nonno e il piccolo Giosuè, addossati al pilastro tra la camera da letto e la sala da pranzo. Mentre tremavamo di paura venivamo sballottati dai movimenti del palazzo che, a dire delle persone che si trovavano in piazza, si è inclinato in avanti oscillando paurosamente. E' stata la prima volta che ho avvertito la rassegnazione di dover morire".

La tragedia di Balvano - Simbolo di quello che, per chi abita quella parte d'Italia, è ancora oggi semplicemente "il terremoto dell'80" resta il crollo del soffitto della Chiesa Madre di Balvano (Potenza) che seppellì 66 persone, per la maggior parte bambini e ragazzi. Un'intera generazione del paese venne cancellata, quel giorno. Alcuni Comuni vicini all'epicentro - tra i quali Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni, Conza della Campania, Castelnuovo di Conza, Santomenna, Laviano, Muro Lucano - furono quasi rasi al suolo, altri gravemente danneggiati.

Ricostruzione infinita - Oggi in quei territori la ricostruzione è quasi completata, ma il quarantennale restituisce ancora ricordi drammatici. Non solo per i lutti e le rovine, ma anche per i gemiti che nei giorni successivi al terremoto continuavano a salire dalle macerie a causa dei ritardi nei soccorsi, che l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini denunciò con voce alta e fermissima. E ancora, per l'esasperante lentezza che ha accompagnato il processo di ricostruzione delle case, mentre continuava a risuonare il lamento degli sfollati, accampati via via, con l'imperversare del freddo e della neve, dapprima nelle tende e nei vagoni ferroviari, poi nelle roulotte, poi nei container, fino a quando un prefabbricato sembrò un'abitazione vera, per quanto precaria. E, infine, per le ruberie di tanti sciacalli, scolpite in decine di inchieste giudiziarie, che hanno allungato le mani sulle ingentissime risorse stanziate dallo Stato - oltre 50mila miliardi di lire, risulta nella relazione conclusiva presentata nel 1991 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro - ridimensionando ai minimi termini, in particolare, il futuro di sviluppo industriale che era stato disegnato per quelle aree.

Nasce la Protezione Civile - Nell'immediato dopo-terremoto, di fronte alle immagini di disperazione, di precarietà e di bisogno che le televisioni diffusero in tutto il mondo, si avviò finalmente la macchina dei soccorsi, guidata da Giuseppe Zamberletti, nominato Commissario straordinario del governo. Fu la premessa di una moderna struttura di Protezione Civile, di cui dispone oggi il Paese, in cui Stato, Regioni ed Enti locali sono chiamati a fare sistema.

Sviluppo non sviluppo - Nel maggio 1981 qualcosa sembra muoversi anche per la riqualificazione e lo sviluppo industriale delle aree in cui si trovano i 506 Comuni danneggiati delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno. Nonostante il varo della legge 219, tuttavia, solo pochissime aziende sono in attività, molte imprese sono state dichiarate fallite qualche tempo dopo aver percepito i contributi pubblici. Quasi la metà delle concessioni industriali è stato via via revocata e solo una piccola parte delle risorse finanziarie è stata recuperata. Sulle macerie del terremoto del 1980 è nata, infine, l'Università della Basilicata, pensata come modello di eccellenza per l'intero mezzogiorno, ma che si propone anche l'obiettivo di fermare, o almeno rallentare, l'emigrazione giovanile dal sud verso altre aree del Paese e verso l'estero.

Una poesia amara su Napoli - Forse più dei dati, delle statistiche e dei resoconti, sono i versi a restituire quel misto di disperazione e quasi rabbiosa consapevolezza, di disorientamento e di denuncia di chi, da allora in poi, acquisterà la nomea di "terremotato". "Siamo morti infarinati/ come pagliacci di un circo equestre/ in più soltanto un filo di sangue dalla bocca./ Avevamo tutti in mente/ un nome amato e invano,/ sul momento, qualcosa ce l'ha fatto dimenticare". Lo scrittore Domenico Rea ricorda così la sua Napoli colpita dal sisma nella poesia Una storia del Sud. Il finale rivela più di qualsiasi articolo, studio o libro di storia: "Poi c'è stato l'evento, nero furore profondo/ tra l'ictus e l'infarto, un dubbio,/ come un peso di una bilancia impazzita./ Ho sentito il passo di Pertini e quello felpato del Papa,/ ma né l'uno, né l'altro, umane creature,/ avevano unghie per scavarci./ E così siamo morti da emarginati/ da antichi clandestini della storia".

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