Secondo uno studio Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), a fine 2019, l’operato del presidente americano Donald Trump era valutato negativamente in vari ambiti: politica estera, sanità e ambiente erano quelli in cui riceveva meno consensi. L’unico campo in cui, a tre anni dell’insediamento, la maggior parte degli americani si dichiarava a favore del tycoon era l'economia. Nel 2020, l’anno delle elezioni presidenziali, la pandemia ha cambiato le carte in tavola, ribaltando anche i risultati positivi ottenuti dall’amministrazione Trump. Dal sondaggio di ottobre del Wall Street Journal emerge però che in campo economico ai repubblicani è ancora riconosciuto un vantaggio di 13 punti sui democratici. Nonostante questo Joe Biden, candidato alla Casa Bianca per il partito democratico, è dato vincente per la sua maggiore affidabilità in ambito sanitario. Ma qual è il bilancio del mandato del 45esimo presidente dal punto di vista economico?
Make America Great Again - Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2016, il programma elettorale del candidato repubblicano era chiaro. Di stampo conservatore, preannunciava la costruzione di nuovi muri: la barriera fisica al confine con il Messico ha fatto molto discutere, ma sono imponenti anche le misure con le quali il Presidente ha cercato di proteggere l’economia americana dalle interazioni con il resto del mondo. Tra le promesse del tycoon c’erano infatti l’interruzione di numerosi accordi commerciali oltre che l’intenzione di dichiarare guerra commerciale alla Cina, accusata di concorrenza sleale nei confronti delle aziende americane.
Donald Trump si prefiggeva poi di abolire l’Obamacare, la riforma sanitaria introdotta dal suo predecessore, e di aumentare il tasso di occupazione. Dal punto di vista fiscale, ha promesso di tagliare le tasse della classe media del 35% e di diminuire l’aliquota delle imprese. Crescita economica in termini di Pil e riduzione del debito pubblico erano gli altri punti della “do to list”.
La guerra dei dazi contro la Cina: promessa rispettata, ma a quale prezzo? - A partire dalla primavera del 2018, Stati Uniti e Cina hanno iniziato a scontrarsi applicando dazi e contro-dazi sui beni importati. A dicembre dell’anno successivo, i danni inflitti da Washington ammontavano a 81 miliardi di dollari. Dal canto suo Pechino ha agito su due fronti: con i dazi sulle merci ha provocato una perdita per gli Usa di oltre 25 miliardi, sul cambio il danno ha invece superato i 60 miliardi. Come in tutte le guerre, alle minacce si sono alternati accordi di breve durata, seguiti da nuove offensive: tutte le mosse hanno avuto forti ripercussioni sui mercati internazionali. La scelta di affossare gli scambi commerciali tra le due nazioni ha avuto conseguenze negative su Pil e occupazione: a causa della guerra dei dazi, nel settembre 2019, si calcolava che 300mila persone avessero perso il lavoro e che il Pil fosse calato dello 0,3%.
Le ostilità si sono concluse a gennaio 2020 e il Presidente ha ricevuto il plauso della stampa repubblicana. Secondo Joseph Stiglitz, Nobel in Economia e docente alla Columbia University, gli Stati Uniti non hanno tratto vantaggio dai due anni di scontri: la promessa del tycoon di riportare il settore manifatturiero in america non ha avuto seguito, anzi, l’aumento dei dipendenti in questo ambito è ancora inferiore al dato dell’era Obama. L'accordo con la Cina però è stata un’indubbia vittoria per l’immagine di Trump: nessun presidente prima di lui aveva ottenuto la promessa da parte della Cina di riequilibrare la bilancia commerciale con 200 miliardi di dollari in importazioni in due anni.
Abolizione dell’Obamacare - Nel mirino del Presidente c’è sempre stata la legge Obamacare. Introdotta dal suo predecessore, ha consentito a milioni di americani di usufruire di copertura sanitaria e da tempo è al centro di una grande controversia politica. A giugno l’amministrazione Trump ha chiesto alla Corte Suprema di abolirla completamente, anche se, nel corso degli anni, una serie di provvedimenti avevano già eroso dall'interno l’Affordable Care Act. Secondo la testata "Vox", sono oltre 7 milioni le persone che dal 2016 hanno perso l’assicurazione sanitaria: sotto il governo Trump la percentuale di americani non assicurati è passata dal 10,9 al 13,7%. Nel 2010 il presidente Obama aveva pronosticato che, entro il 2020, la legge sarebbe costata 940 miliardi di dollari allo Stato americano. Trump ha dichiarato di volerla sostituire con una nuova legge meno onerosa per lo Stato e ugualmente efficace per la salute dei cittadini, ma non sono ancora chiare le modalità.
Il taglio delle tasse alle imprese: un aiuto all’occupazione o agli azionisti? - Nel dicembre 2017 il Congresso Usa ha varato una riduzione delle imposte sui profitti aziendali dal 35 al 21% e un più modesto taglio di aliquota per le persone fisiche dal 39,6 al 37%. Costo dell’intervento, stimato dal Congresso: 1.900 miliardi di dollari in dieci anni. L’obiettivo dichiarato era invogliare le imprese a tornare a investire negli Stati Uniti, sia in termini di attività che di occupazione. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, pubblicato nell’agosto 2019, i tagli alle tasse sono stati invece un grande regalo per gli azionisti delle grandi aziende, con effetti limitati sulla crescita degli investimenti.
Un altro Nobel in Economia, Paul Krugman, in un articolo pubblicato dal "New York Times" ha spiegato: “Le aziende hanno utilizzato gran parte dei proventi ottenuti dalla riduzione delle tasse per riacquistare le proprie azioni, invece che per assumere o per potenziare la capacità produttiva [...] Non ci sono molti investimenti che vale la pena fare ora che l’aliquota sui profitti è al 21%, ma non valeva la pena fare quando era al 35%. Inoltre, una parte sostanziale dei profitti delle aziende in realtà viene dal potere di monopolio, non dai ritorni sugli investimenti; e tagliare le tasse sui profitti da monopolio è una regalia pura e semplice, che non offre alcun motivo per investire o assumere”.
Riduzione del debito pubblico: obiettivo fallito - Il debito pubblico americano è cresciuto notevolmente dal 2000 in poi: oggi gli Usa sono il Paese con il debito pubblico più alto al mondo, in valore assoluto. Gli anni del governo Trump non hanno fatto eccezione, al netto del Covid, nel 2019 il debito Usa ha raggiunto la cifra di 22mila miliardi e 276 milioni, con 106 punti in percentuale sul Pil. Secondo gli analisti, l’aumento del deficit è un effetto collaterale del combinato di deregulation e dei tagli alle tasse.
La crescita economica e la batosta del Covid - Nel dicembre 2017, con l’ottimo dato del Pil in crescita di oltre il 3%, Trump aveva promesso davanti alle telecamere: “Nessuno pensava potessimo arrivare al 3%. Penso che arriveremo al 4,5 e forse anche 6%”. Nel primo trimestre del 2019 però era ancora al 3,1%, e l’anno si è chiuso con una crescita economica del 2,1%, lontano dai picchi raggiunti da Barack Obama nel 2014 (5,5%).
Secondo Larry Kudlow, il principale consulente economico della Casa Bianca, il Pil avrebbe dovuto raggiungere almeno il 3% nel 2020, ma la pandemia ha reso impossibile sapere se la previsione era esatta. Nel secondo trimestre di quest’anno l’economia americana ha sofferto una contrazione record del 32,9% su base annuale e del 9,5% rispetto al trimestre precedente.
Disoccupazione ai minimi (fino al 2019) - Il trend favorevole dell’occupazione è iniziato nel 2009 quando è iniziata una stabile contrazione del tasso di disoccupazione, che era pari al 4,7% alla fine del secondo mandato di Obama. L’amministrazione Trump ha beneficiato di questa tendenza e il tasso di disoccupazione a fine 2019 si era stabilizzato al 3,5%, portando il Paese a raggiungere il record più basso di disoccupazione degli ultimi 50 anni. Secondo le statistiche del Dipartimento del Lavoro statunitense, negli ultimi mesi il maggior numero di posti di lavoro sono stati creati nel settore della ristorazione, dell’assistenza sociale e in quello delle attività finanziarie. Ha invece subito una contrazione il settore manifatturiero, che ha raggiunto nel mese di ottobre 2019 il tasso di occupazione più basso registrato dal 2016 a oggi. Infatti, nonostante questo ambito sia sempre stato centrale nella strategia economica di Trump, sta risentendo fortemente della prolungata tensione commerciale riconducibile all’impatto della guerra dei dazi con la Cina.
Ma anche su questo fronte il Covid ha dato una spallata: nel secondo trimestre 2020 le nuove richieste settimanali di sussidi di disoccupazione sono aumentate di 1,43 milioni di unità. Il dato è sintomo che licenziamenti e tagli dei posti di lavoro continuano, rinviando ogni recupero occupazionale. Le conseguenze per il benessere dei cittadini, e di riflesso, per i consumi, sono gravi: stando all’Ufficio del censimento, un terzo delle famiglie non ha fondi o credito per le spese normali, con 15 milioni in ritardo sull’affitto e 29 milioni in preda a insicurezza alimentare.
Il rally di Wall Street interrotto dal Covid - Dall'inizio della presidenza Trump i tre indici S&P 500, Dow Jones e Nasdaq del principale mercato azionario mondiale sono migliorati in media di oltre il 50%. Per generare questo incremento, l'indice delle 500 società più importanti della borsa americana ha chiuso in rialzo nel 59,3% delle sedute del 2019. Un evento molto raro: solo in altri cinque anni, dal 1928 a oggi, l'indice aveva chiuso così spesso in rialzo. Il mercato aveva beneficiato della riforma fiscale che, come si diceva in precedenza, ha spinto le aziende americane a riacquistare le proprie azioni e ha contribuito a sostenere le quotazioni sui mercati azionari.
“The best is yet to come!”, il meglio deve ancora venire, aveva twittato a dicembre 2019 Donald Trump, dopo il sesto record consecutivo degli indici azionari. Non poteva prevedere che sotto la sua presidenza si sarebbe registrata anche una delle pagine più buie di Wall Street: il 16 marzo si è verificata una perdita del 12% a causa delle incertezze dovute al coronavirus.
Il rapporto burrascoso con la Fed - Difficile ricordare un presidente che ha abbia avuto un rapporto così difficile con la Banca Centrale americana e il suo governatore, Jerome Powell. L’oggetto del contendere sono quasi sempre i tassi di interesse: la Fed negli ultimi anni li ha alzati, mentre il Presidente vorrebbe che fossero abbassati per evitare un rafforzamento eccessivo del dollaro, e quindi un danno all'export Usa. Nel corso di questo scontro, il tycoon ha definito la Fed “un bambino testardo che ha rovinato tutto” perché si rifiutava di intraprendere la politica monetaria da lui consigliata.
È arrivato anche a minacciare il governatore di licenziamento, facoltà che però non gli spetta: la democrazia americana si basa sul concetto di check and balance (controllo e bilanciamento reciproco) e garantisce l’indipendenza della Banca Centrale.