Formazione e occupazione

Skills mismatch: quanto costa spendere male il capitale umano?

Ogni anno assumere personale troppo (o non abbastanza) qualificato ci fa perdere il 6% del Pil mondiale. In Italia il problema è causato da un sistema formativo inadeguato e dall'arretratezza tecnologica delle imprese

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Alcuni dipendenti non hanno tutte le competenze necessarie per il lavoro che devono svolgere, altri invece sono assunti per una mansione che è al di sotto della loro preparazione: è lo skills mismatch, la disposizione poco efficiente delle risorse umane all’interno delle aziende. Secondo il Boston Consulting Group, due impiegati su cinque si trovano in questa situazione almeno una volta nel corso della propria carriera, con conseguenti spese extra per l’azienda che li ha assunti. Numeri alla mano, circa 1,3 miliardi di persone in tutto il mondo si trova in questa situazione, che diventa una vera e propria tassa sulla produttività. Ogni anno, a causa dello skills mismatch, si perde il 6% del Pil mondiale, pari a 5mila miliardi di dollari (il doppio del debito pubblico italiano). 

Dannoso per le imprese e per i dipendenti - Lo skills mismatch non va confuso con lo skills gap: il problema non è l’assenza di potenziali impiegati, ma la mancanza di corrispondenza tra le loro competenze e le mansioni che devono svolgere. I dipendenti non qualificati sono meno produttivi e devono essere formati, quindi diventano un costo aggiuntivo per l’azienda. La perdita è consistente anche quando la società investe sulla formazione e poi non riassegna i dipendenti alla nuova mansione: le persone finiranno col dimenticare le competenze acquisite. Anche mantenere degli impiegati sovraqualificati non è conveniente: chiederanno stipendi più alti e non potranno dispiegare il loro pieno potenziale. 

Ma lo skills mismatch è un problema anche per i dipendenti: reddito e futuro professionale sono sempre più incerti. 

Quali sono le cause di questo fenomeno? - Le ragioni della cattiva allocazione delle risorse umane sono da ricercarsi nel sistema formativo. Secondo lo studio “Fixing the Global Skills Mismatch” del Bcg, il mondo del lavoro si è evoluto rapidamente negli ultimi anni, ma la formazione è rimasta ferma al modello del XX secolo: educazione standardizzata con l’obiettivo di mantenere lo stesso impiego per tutta la vita. Questo paradigma oggi non funziona più: il continuo aggiornamento tecnologico e le trasformazioni del mercato richiedono pensiero flessibile, apprendimento rapido e continuo e mobilità. “Anziché appiattirci sulla standardizzazione di massa”, propone lo studio del Bcg, “dobbiamo orientarci verso la centralità della persona e valorizzare le capacità di ciascuno”. 

Fino a oggi infatti il capitale umano è stato trattato come un’entità uniforme. Ma invece, ricorda il report del Bcg, include diverse realtà, basti pensare alle varie generazioni che troviamo oggi in un ufficio qualsiasi: i baby boomers, la Generazione X, i Millennials e la GenZ. Ogni gruppo ha interessi, valori, conoscenze, esperienze e ambizioni diverse, che devono essere tenute in considerazione: per fare un esempio, secondo i sondaggi, la fascia lavorativa più giovane è disposta a rinunciare al 10% dello stipendio per passare meno tempo in ufficio, e solo per il 36% di loro fare carriera è una priorità di vita. La mancanza di dialogo tra settore privato e sistema educativo ha provocato un netto divario tra gli obiettivi scolastici e universitari e le competenze richieste sul posto di lavoro, incastrando i lavoratori nella “qualification trap”. 

Sfide e criticità - Il report del Bcg identifica alcune criticità, a livello formativo e attitudinale, che è necessario risolvere per ridurre l’impatto dello skills mismatch. In primo luogo, dovremmo essere più attenti a capire quali settori lavorativi si svilupperanno maggiormente nei prossimi anni e quali competenze è necessario apprendere per farne parte: entro il 2022, il 27% delle posizioni disponibili saranno per impieghi che oggi non esistono ancora. 

L’altro aspetto è quello della formazione continua: molti dipendenti non sono consapevoli della necessità di continuare a imparare anche dopo l’ingresso nel mondo del lavoro. Le competenze infatti diventano obsolete sempre più rapidamente: quelle tecnico-informatiche, sono da aggiornare dopo un periodo che va dai due ai cinque anni. Non bisogna poi dimenticare che il potenziale di certe categorie non è valorizzato: negli Usa, per esempio, il 7% della popolazione è composto da persone con disabilità che sarebbero in grado di lavorare, ma due terzi di loro non può farlo a causa di politiche aziendali non inclusive. 

Skills mismatch in Italia: limiti del sistema formativo - Nel nostro Paese, secondo uno studio di Action Institute, l’allocazione inefficace delle risorse è parte rilevante dello stallo della produttività. In “Skills Mismatch in Italia: analisi e scelte di policy in uno scenario in rapida evoluzione” si mette in evidenza che, a livello europeo, siamo il fanalino di coda sia per quanto riguarda le competenze linguistiche e numeriche, sia per il numero di laureati. Per questi ultimi però, il fatto di essere in pochi non sembra essere un vantaggio: i loro tassi di disoccupazione sono molto più alti di quelli dei Paesi. Negli ultimi 15 anni, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25-39 ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%. Questi dati confermano che anche in Italia persiste il gap tra sistema formativo e mondo del lavoro: le qualificazioni formali non sono necessariamente buoni indicatori delle competenze effettivamente possedute dai lavoratori. 

Le PMI e i laureati in facoltà scientifiche - Un altro aspetto da considerare è il tessuto industriale, in cui le piccole e medie imprese, ma anche le micro-imprese, giocano un ruolo preponderante. Queste realtà troppo spesso non sono aggiornate dal punto di vista informatico e tecnologico, e finiscono per assumere laureati sovraqualificati per le mansioni a cui sono preposti. Secondo uno studio OECD infatti, nel nostro Paese il 20% dei lavoratori è sovraqualificato, e di questi il 30% è laureato in facoltà STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). “La sovraqualificazione in questo segmento - commenta lo studio - che, vista la trasformazione tecnologica degli ultimi anni, dovrebbe fornire skills particolarmente ricercate sul mercato del lavoro, indica precisamente una debolezza strutturale del sistema produttivo”. 

All'ultimo posto nella collocazione dei laureati - I dati raccolti dal Cedefop (l’agenzia dell’Ue specializzata nel raccogliere dati sulla formazione) mostrano che l’Italia è sotto la media europea per quanto riguarda le skills activation, ovvero le misure utili alla transizione nel mondo del lavoro. Il nostro Paese è ultimo in classifica a causa del basso livello di occupazione per i laureati recenti, del basso tasso di partecipazione (forza lavoro/popolazione) e dell’alta percentuale di coloro che si ritirano da educazione e training prima del conseguimento di un titolo. In uno scenario in cui innovazione tecnologica e relativi riflessi sul sistema di produzione vanno di pari passo con una crescita di forme di impiego non standard, l’Italia è in difficoltà nel fornire ai propri lavoratori competenze adeguate alle trasformazioni in atto. 

Il report di Action Institute propone però anche un lato positivo: “La percentuale di sovraqualificati è un elemento da valorizzare, è un potenziale che l’economia italiana può sfruttare per innovarsi e compiere quell’upgrade del sistema produttivo che sembra necessario per competere nelle catene di produzione europee e globali”.