Pittore, scultore, fotografo, ceramista, illustratore, scenografo, André Derain è passato dall’avanguardia estrema dei Fauves (di cui con Matisse è stato il protagonista più convinto e sincero), con una pittura fatta di colori accesi e intarsi cromatici, che gli valsero l’epiteto di “bizantino”, a una sperimentazione apparentemente antimodernista: intrisa di tradizione, di mito, di forme classicheggianti e pompeiane. Una virata che spesso è stata accolta come un tradimento, un ammutinamento nei confronti della contemporaneità, di cui fino agli inizi degli anni trenta, Derain, frequentatore dei salotti mondani, amante del lusso, di case principesche e di roboanti Bugatti, fu tra gli indiscussi protagonisti della scena artistica in tutta Europa. Pochi sanno che fu Derain a introdurre Picasso nel mondo dell’arte africana e con lui il pittore spagnolo fece i primi passi verso il Cubismo. Insomma, fu lui a dare avvio a quei cambiamenti che avrebbero rivoluzionato per sempre il mondo dell’arte.
In realtà, la trasformazione, di cui dicevamo all’inizio, non fu una brusca inversione di rotta, ma piuttosto la somma di una serie di momenti, di contatti, di scoperte culturali e per la quale decisivo fu un viaggio in Italia (nel 1921), dove, a Roma, s’immerse nell’antico, nel barocco e dove poté anche ammirare l’elegante e armoniosa pittura di Raffaello. Da lì in poi i paesaggi, prima incendiati di rossi, arancioni e viola, lasceranno il posto a una natura silente, distesa, carica di verdi e azzurri pensosi, mentre le cose e i volti degli amici più cari (che negli anni dieci si striavano di contrastanti e vibranti pennellate antinaturalistiche) ora si placano dentro contorni marcati, linee pulite e volumi generosi (che però hanno quasi sempre una parte sfuggente, una porzione non finita, una mano che sfuma ed evapora). Al chiassoso ed esuberante mondo fauve subentra un mondo malinconico, riflessivo, fatto di fondi scuri e ragazze dallo sguardo assente, meditativo. Anche le nature morte sono come sospese in una luce soffusa, tenebrosa, immobile e carica d’attesa, potremmo dire metafisica (e della Metafisica Derain è stato a suo modo un precursore). Queste sue composizioni hanno forme asciutte e semplici, linee quasi araldiche e sono ancora capaci di qualche guizzo “fauve”, come nella Geneviève à la pomme, dove una pennellata arancione disegna il mento, mentre un verde menta profila il braccio piegato sul piano del tavolo.
Nonostante le cose appaiano più veritiere e riconoscibili rispetto al periodo Fauve, dove il flusso di linee rendeva tutto instabile, oscillante, febbricitante oppure appuntito e verticalizzato come un’architettura gotica, Derain ora non dipinge la realtà, ma la sua componente più filosofica, la sua dimensione più mentale.
Il mutamento artistico va di pari passo con un cambiamento interiore, con un’inquietudine malinconica, un’insoddisfazione perenne, aggravatesi nel 1934 con la morte del suo mercante Paul Guillaume. Da quel momento Derain si allontana dal mondo dell’arte, abbandona la città per rifugiarsi a Chambourcy, dove continua a lavorare alacremente e dove tra i pochi artisti ammessi ci sono Balthus e il giovane Giacometti, che di lui disse: “Derain è il pittore che mi appassiona di più, colui che più mi ha dato e insegnato dopo Cézanne; per me è il più coraggioso”.
Considerato uno dei tre pilastri dell’arte del XX secolo, accanto a Henri Matisse e Pablo Picasso, molto ammirato anche in Italia, da artisti come Carrà e De Chirico, Derain è però uno di quegli artisti che il grande pubblico deve ancora imparare a conoscere. La bella mostra al Museo d’Arte di Mendrisio (aperta dal 27 settembre 2020 al 31 gennaio 2021), con oltre 150 tra dipinti (70), disegni, bozzetti per costumi e progetti per scene teatrali, sculture e alcune ceramiche, ma anche fotografie e documenti, offre un’imperdibile occasione per farlo.
di Lorella Giudici