Sarà l'effetto delle "cover", lo stucco veneziano del Festival, la serata del cazzeggio e del ricordo. Sarà Noemi senza girovita da circense che ravviva la Bertè; o saranno i Dear Jack che stritolano il Quartetto Cetra tra le corde di un Fender rossa; o sarà la Patty Pravo agè che indossa la maschera di Diabolik di Patty Pravo da giovane, un tripudio di caucciù; o magari saranno gli Zero Assolutomentre cantano Goldrake soffiando tristezza nei microfoni come fosse una canzone di Tracy Chapman in un indiretto omaggio a Matteo Renzi ('va, distruggi il Male, va/mille armi tu hai/non arrenderti mai'). Sarà la giacca blu elettrico di Carlo Conti, un allucinogeno naturale. Sarà Virginia Raffaele nei panni -strepitosi- di Donatella Versace che perde i pezzi come Meryl Streep ne "La morte ti fa bella". Sarà tutto questo. Ma l'altra sera, sul palco dell'Ariston, Gabriel Garko, per la prima volta, non mi è apparso quel terribile gagà 2.0 tutto occhiolini e strizzatine d'occhio alla telecamera.
Non mi è sembrato, quella statua di sale di un metro e novanta dotata di occhiali catarifrangenti per distogliere l'attenzione dall'insieme. Non mi si è più palesato il Gabriel, come quella "quota omofila" dell'Ariston carezzata, nella sofferta lettura del gobbo, da una leggera brezza dislessica. No. Saranno stati gli autori. Sarà stato che era l'unico, là dentro, senza quel fiocchetto arcobaleno. Ma, insomma, quando Garko,nella serata delle cover, è apparso dalla platea dell'Ariston trascinato dalla Ghenea sulle note della Coppia più bella del mondo e ha esordito con "Voglio ringraziare Carlo: mi ha dato la possibilità di farmi conoscere al pubblico come co-presentatore, forse adesso mi apprezzerete di più come attore" e come attore Garko non è, diciamo, Al Pacino; be', ecco, in quel preciso momento, qualcosa è cambiato.
Sarà il sottotesto. Ma a Garko, magicamente, era spuntata l'autoironia (ha poi rincarato su sé stesso: "Spigliato Garko, mi ricorda un pioppo che avevo un giardino"). Maddài, Garko ironico non esiste in natura. Eppure, il suo essere lì in mezzo, rendeva l'impressione spaesata di un Chatwin in Patagonia o di un Riccardo Muti su un carro del Gay Pride: "Che ci faccio io qui?", sottinteso: a fare la comparsa a Sanremo ed essere pure pagato per questo? E, all'improvviso le gaffe di Garko mi sono sembrate quelle, morbide, di Mike. E quel suo essere smagato, di passaggio, con l'espressione ci sposa di Gentiloni quando gli fai una domanda sulla Libia; bè si sono trasformate quasi in cifra stilistica. Non ci si aspettava nulla da Garko, e Garko ha reso quel nulla una presenza piacevole. Il ragazzotto della porta accanto che, invitato alla festa, timidamente mette le mani in tasta e parla con un tubero in bocca. Viva Gabriel.. (Oddio, quasi viva)