Solo un logo nero in campo bianco, con il nome dell'artista scritto con simboli incomprensibili. Sin dalla copertina "Blackstar", il 28.mo album in studio di David Bowie, in uscita l'8 gennaio, lascia intendere come l'artista inglese abbia voluto realizzare qualcosa fuori dal convenzionale. Un album tra jazz, sperimentazione e melodie classicamente bowiane, che riesce ad aggiungere qualcosa alla nutrita discografia del cantante.
Se "The Next Day", l'album del suo ritorno a sorpresa nel 2013 dopo 10 anni di silenzio, aveva riportato Bowie indietro nel tempo, con evidenti richiami al suo passato, sin dalla copertina che citava apertamente "Heroes", con "★" l'intenzione è evidentemente opposta. Bowie ha voluto mettere insieme qualcosa di inedito, quanto meno nello spirito. Per questo, affiancato dal suo produttore storico Tony Visconti, ha lasciato a riposi i suoi musicisti abituali per provare l'alchimia di un gruppo di jazzisti alle prese con brani dall'impronta rock.
D'altro canto il jazz ha attraversato la carriera di Bowie come una sorta di fiume carsico capace di emergere qua e là. Ora nel piano di Mike Garson ("Aladdin Sane"), ora nel sax di Lester Bowie (in "Black Tie / White Noise"), ora nella collaborazione con Pat Metheny a metà anni 80 ("This Is Not America"). E persino nel drum n' bass di "Earthling", con ritmiche molto affini a più di un pezzo di "★". Adesso Bowie ha portato in superficie tutto questo per farne la matrice portante del suo nuovo lavoro.
Non c'è dubbio che "Blackstar", il primo singolo e brano di apertura, sia un po' il manifesto dell'album e al tempo stesso un unicum al suo interno. Una sorta di "Station To Station" del 2015, non tanto per riferimenti melodici o atmosfere, ma per il suo snodarsi su un raggio ampio (10 minuti di pezzo) con continui cambi di direzione. La batteria frenetica, il sax di Donny McCaslin vero protagonista, l'atmosfera malsana che poi si apre in una melodia rasserenante, lampi di synth anni 80 assolutamente fuori contesto: tutti elementi che in qualche modo ritornano nel corso dell'album. Del free jazz si prende soprattutto l'aggettivo: la libertà di mettere insieme anche elementi apparentemente non solo distanti ma persino in contrapposizione è totale.
L'impressione è che Bowie abbia preso un pugno di canzoni che aveva pronte e abbia voluto giocarci sopra per renderle meno "ovvie" (le virgolette sono d'obbligo). Lo dimostra il fatto che la sperimentazione stia tutta negli arrangiamenti mentre melodie e armonie sono bowieane al 100% (l'uso di alcuni accordi è suo e solo suo) e anche la presenza, stravolti e impreziositi, di brani già presentati nel passato recente come "'Tis A Pity She Was A Whore" e "Sue (Or In A Season Of Crime)", quasi che le prime versioni fossero state prove in corso d'opera. Il secondo singolo, "Lazarus", fascinoso ed emozionante, sconta un po' la somiglianza (in minore) con "Slip Away" (brano contenuto in "Heathen", 2002), mentre "Girl Loves Me", dall'incedere marziale e l'atmosfera sospesa, è un pezzo che entra sotto pelle lentamente e necessita più ascolti per essere compreso.
Il risultato finale è un album scuro, inquieto, dove anche quando la melodia sembra portare su lidi sereni arriva l'accordo che spezza l'incantesimo. A rassicurare che in fondo c'è sempre qualche certezza a cui aggrapparsi ci pensano giusto gli ultimi due brani, "Dollars Day" e "I Can't Give Everything Away". Il primo è una ballad non particolarmente originale, in cui il lampo arriva nel finale, con un loop di batteria elettronica del tutto straniante. Il secondo ricorda il Bowie più ispirato degli anni 80: un brano arioso, dove per la prima volta le sonorità flirtano con il pop più raffinato. A 68 anni Bowie ha ancora il gusto di provare ad alzare l'asticella: in "★" non solletica nostaglie di vecchi fan, non si veste di giovanilismo per cercarne di nuovi. Bowie fa Bowie. E non è affato poco.