Chiudere con una favola, dopo i thriller, le canzoni antimafia, la comicità a Drive in è un modo delicato di andare via. Così Giorgio Faletti lascia alla letteratura e al mondo un racconto limpido e leggero come una piuma. E, non a caso, "La piuma" è il titolo del libro, pubblicato postumo e lungo appena 96 pagine. Sono pagine di puro candore, illustrate dallo scenografo e amico Paolo Fresu. Non è azzardato ritenere questo libro (Badini&Castoldi, 13 euro), come un testamento morale dell'autore astigiano, morto nel luglio dell'anno scorso per un male incurabile.
Leggendo le ultime pagine scritte da Faletti si seguono contemporaneamente i bianchi e i neri delle lettere sul foglio bianco e il volo leggerissimo della piuma. Si materializza magicamente la piccola penna bianca passando inosservata e ignorata nelle case dei personaggi cornice: il Re troppo indaffarato a fare la guerra, il Cardinale troppo impegnato a chiedere la quota di grano ai poveri contadini, una prostituta, troppo ansiosa di ottenere la sua ricompensa.
Ad accorgersi di quell'oggetto dal peso infinitesimale solo l'ultima figura che appare nel racconto e nelle illustrazioni (intensissime) di Paolo Fresu. Un personaggio sicuramente autobiografico e basti questo per incuriosire il lettore ad arrivare (presto) fino alla fine del racconto. Per lui la piuma acquisterà un significato che ha il sapore allegro e frizzante della libertà.
In anteprima per Tgcom24 l'incipit de "La piuma":
"La piuma arrivò risalendo il vento. Nessuno si accorse di questo strano fenomeno, forse nemmeno il vento stesso, che per natura ha canne da piegare e foglie da girare sulle dita e stagni da stupire con gocce di pioggia che lasciano cerchi improvvisi e bolle sulla superficie immota dell'acqua. Tracciando il suo invisibile sanscrito nel cielo, la piuma sorvolò un villaggio popolato di uomini, che come tali prestavano attenzione solo a ciò che avveniva in terra, davanti ai loro occhi.
Un fabbro batteva il ferro rovente di una lama chiedendosi se sarebbe stata una buona spada, un contadino seminava il suo campo chiedendosi se sarebbe stato un buon raccolto, le donne stavano al fiume a lavare i panni chiedendosi se sarebbero diventati bianchi e immacolati. Solo i bambini correvano senza nulla chiedersi, giocando e schiamazzando per le anguste vie del villaggio, fra le case di fango e paglia, inseguiti da cani festanti che, pur senza capire, si univano al gioco. Alcuni cavalli erano impastoiati davanti alla locanda dove cavalieri senza macchia e senza paura sostavano per stordirsi di vino, procurandosi macchie sulle vesti mentre cercavano di dimenticare la loro paura. Nessuno riuscì a vedere la piuma perché nessuno aveva tempo a sufficienza per alzare gli occhi al cielo e riuscire anche solo a guardarla.
Oppure, era una soffice piuma candida, che per le sue dimensioni doveva per forza appartenere a un uccello dalle grandi, enormi ali. Forse era la penna remigante di un'aquila albina o forse addirittura una delle penne timoniere di una mitica fenice o forse non esisteva da nessuna parte un uccello a cui potesse appartenere ed era semplicemente frutto di un'illusione. Tuttavia, di colpo il vento la riconobbe e la prese con delicatezza fra le sue dita. Finalmente spinta da un soffio d'aria consapevole, la piuma abbandonò il villaggio degli uomini e salì a sorvolare la foresta e a tingersi del riflesso degli alberi e a gareggiare con le nuvole nel loro vagabondare, bianca come solo per le nuvole è possibile".