Il Kenya non ha più lacrime da versare. Il massacro di studenti nel campus di Garissa, frutto della furia jihadista degli estremisti somali Al Shabaab, che con almeno 147 morti rappresenta il secondo peggior attacco terroristico della storia del Paese dopo il bombardamento del 1998 all'ambasciata americana di Nairobi, non sarà mai dimenticata. A maggior ragione da chi è sopravvissuto alla strage. Come Helen Titus, che per salvarsi si è coperta "con il sangue di una vittima di fianco a me". Si è finta morta e oggi è viva, nonostante "ci avevano detto che le donne non sarebbero state toccate, perché il Corano vieta di uccidere le donne. Invece le hanno uccise, ne hanno uccise tante".
Helen non ha dubbi: "Appena entrati nel campus gli assalitori si sono diretti verso l'aula magna dove noi cristiani stavamo recitando le preghiere del mattino. Avevano studiato l'edificio, sapevano tutto". Nina Kozel aggiunge: "Quelli che si sono nascosti sotto il letto e negli armadi sono stati uccisi sul colpo, mentre quelli che si sono arresi sono stati uccisi se cristiani e liberati se musulmani".
Elosy Karimi si era "rannicchiata sopra al letto a castello, sotto il soffitto, immobilizzata dalla paura". E' rimasta nascosta lì per 28 ore, l'attacco è durato 15. Il musulmano Ahmed Youssouf, invece, era con alcuni compagni, e ha aiutato alcuni cristiani a nascondersi: "Cercavano un rifugio, li abbiamo nascosti e poi sono riusciti a scappare dal cancello dell'università".
Salias Omosa, 20 anni, studentessa di pedagogia, ha visto morire due amici, ha assistito alla loro esecuzione, ma si è salvata. E quindi ha potuto anche raccontare che i terroristi "hanno costretto alcuni ragazzi a chiamare casa per dire: 'Noi moriamo perché Uhuru (Kenyatta, il presidente keniano, ndr) persiste a restare in Somalia'". Poi, gli spari. E la morte. Non la sua, ma di 148 persone: oltre a tre soldati e tre agenti, 142 studenti. Praticamente tutti cristiani.