Mantenere inalterate le proprie quote di mercato piuttosto che i prezzi. Questa l'idea alla base della decisone dell'Opec (l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) di non tagliare la produzione di greggio, per il quale i prezzi al barile sono scesi a livelli che non si vedevano ormai dal 2009.
Le cause del crollo dei prezzi sostanzialmente sono tre: il calo della domanda dei Paesi avanzati, il rallentamento di quella dei Paesi emergenti e l'aumento elevato della produzione (legato in larga parte all'incremento della produzione degli Stati Uniti, diventati i primi produttori mondiali grazie all'estrazione dello Shail Oil).
Facendo una distinzione, come ha fatto l'Unione Petrolifera (Up), è possibile notare come negli ultimi cinque anni la riduzione della domanda dei Paesi membri dell'Ocse, dello 0,9% rispetto al +0,3% del 2013, e il rallentamento, dal +3,5% dello scorso anno al 2,4% del 2014, di quelli non-Ocse, abbia fatto registrare all'anno in corso la più bassa crescita della domanda di greggio mondiale degli ultimi cinque anni: +0,7%.
Se si unisce questo all'aumento del 2% tra 2013 e 2014 della produzione mondiale, 2,8 barili di greggio in più al giorno, emerge un surplus dell'offerta sulla domanda di circa 800 mila barili al giorno: 92,4 milioni di b/g (barili al giorno) richiesti contro i 93,2 milioni di b/g prodotti.
A tutto ciò si aggiunge, accentuando la caduta dei prezzi, la decisione dell'Opec di qualche settimana fa di non tagliare, al contrario di quanto si potesse pensare, la produzione di petrolio, lasciandola invariata a 30 milioni di barili al giorno. Le motivazioni saudite sono chiare: l'Arabia Saudita (produttore leader dell'Opec) non ha intenzione di intaccare la propria quota di mercato in un momento in cui la produzione extra-Opec è in continua crescita. Lo ha ribadito lo stesso ministro saudita del petrolio, assicurando comunque che l'attuale dinamica dei prezzi petroliferi sia una cosa temporanea.
Fatto sta che, che si tratti di un momento transitorio o no, i dati parlano chiaro: solo nell'ultimo quadrimestre dell'anno il Brent del Mar del Nord ha perso oltre il 40%. Tra giugno e dicembre i prezzi sono scesi di 55 dollari al barile, facendo scendere la media annua per la prima volta dal 2010 sotto i 100 dollari al barile (a 99,1 dollari al barile, in calo dell'8,8% rispetto alla media dello scorso anno).
Ma se un prezzo del petrolio troppo basso rappresenta una nota negativa per molte economie, (soprattutto Russia, Iran, Canada e Stati Uniti), per i Paesi importatori un calo del prezzo dell'energia eleminerebbe un freno non irrilevante per la crescita e la competitività industriale. Non solo, secondo le stime del Fondo monetario internazionale un calo di dieci dollari nei prezzi dei barili si traduce in circa 0,3 punti percentuali sul Prodotto interno lordo.
Entrando nel dettaglio italiano le riduzioni delle quotazioni del greggio, unite a un calo dei consumi, hanno fatto scendere i pagamenti per le forniture energetiche dall'estero di circa il 20%: 11 miliardi di euro in meno rispetto al 2013. In particolare, spiega sempre l'Unione Petrolifera, la fattura per i rifornimenti petroliferi è scesa del 18% rispetto allo scorso anno, attestandosi a 25 miliardi di euro.
Nonostante il calo del prezzo del greggio abbia riportato il prezzo al barile ai livelli di circa 4 anni fa, i prezzi alle pompe di benzina sono cambiati sì, ma non tanto come ci si poteva aspettare. Questo perché in Italia a gravare maggiormente sul prezzo dei carburanti al litro sono l'Iva e le accise. Su un prezzo ipotetico di 1,80 euro al litro, 1,10 euro vengono incassati dall'erario, 60 centesimi vengono pagati per il petrolio stesso, mentre alle compagnie vanno solo 14 centesimi.