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"Guarigione" di Cristiano de Majo, una riflessione su paternità e dolore

"Perché non possiamo ricordarci chi siamo stati? Perché i miei figli non potranno ricordarsi di adesso, di come il loro padre, li vedeva?"

© ufficio-stampa

La scoperta della paternità, i primi anni di vita di due gemelli, il marchio incerto di una malattia genetica che potrebbe svilupparsi in una forma grave o leggera, o anche scomparire lasciando solo poche tracce sulla pelle, e poi Napoli e l'Italia, le ambizioni artistiche e i bisogni economici borghesi, la storia di una coppia e di una generazione.

Nel libro di Cristiano de Majo "Guarigione" (Ponte alle Grazie, 252 pagine, 16.50 euro) con un'impronta autobiografica e una grande forza narrativa, i fatti quotidiani, sia ordinari che straordinari, diventano l'occasione per riesaminare la vita nel suo complesso: di fronte alla malattia, nel passaggio dalla condizione di figlio a quella di padre, ogni valore viene riconsiderato, il passato e il futuro assumono nuovi significati, la speranza della guarigione (le diverse guarigioni di questo libro) acquisisce un nuovo senso.

Dolore e felicità; paura e aspettative; amore e responsabilità; destino e caso: con un rigore a tratti quasi spietato, il neo‐padre, partendo dalla propria esperienza, incrociando le vite degli altri e analizzando libri, opere d'arte e persino guide turistiche e teorie ufologiche, affronta temi universali con uno stile misurato, capace di sincerità intransigente e di improvvisi, quasi inaspettati, momenti di profonda dolcezza.

Leggi in anteprima l'incipit del libro:

Questa storia inizia ancora prima, ma fu nell'ottobre del 2010 che, in seguito a un test di gravidanza positivo, prenotammo un appuntamento da una ginecologa di nostra conoscenza e sul monitor dell'ecografia ci trovammo davanti a due ovali verdi fosforescenti ognuno con dentro un puntino lampeggiante. Durante il viaggio di ritorno dallo studio medico, guidavo la macchina girandomi ogni secondo per guardare Laura accanto a me, e stupiti e terrorizzati pronunciavamo brevi frasi o ridacchiavamo, ma senza riuscire a fare un discorso. La parola gemelli ci suonava nuova come se nessuno dei due l'avesse mai presa in considerazione. Dai finestrini mezzi aperti lasciammo entrare l'aria, sempre più fresca, del crepuscolo autunnale, annuncio di un inverno che sarebbe stato anch'esso nuovo. Passato il capogiro, ci abituammo presto all'idea – c'era qualcosa di euforico nel rivolgere i nostri pensieri di cura e attesa a due embrioni quando ancora non eravamo pronti all'idea di uno soltanto - e iniziammo a considerare triste l'ipotesi retrospettiva di una normale gravidanza non gemellare. Allora sperammo dal profondo dei nostri cuori che nessuno dei due svanisse nel nulla: il fenomeno del vanishing twin, ci aveva avvertiti la ginecologa, ricorreva spesso nelle prime settimane delle gravidanze gemellari. Avevamo paura anche perché venivamo da anni tribolati, che ci avevano fatto sviluppare un riverente timore per il nostro destino. Non era così lontano il 2007, l'anno in cui mi era stato diagnosticato un tumore al testicolo, quando avevo dovuto sottopormi a un intervento di orchiectomia e, due mesi più tardi, a due cicli di chemio. Ed è vero che non avevo pensato di morire – fortuna nella sfortuna, la statistica giocava decisamente dalla mia parte, il tumore al testicolo, specie agli stadi iniziali, è un cancro curabile al punto che le tabelle dicevano che avevo il 98 per cento di probabilità di guarire – ma un tumore è pur sempre un tumore. Oltre al corpo, coinvolge gli affetti, le relazioni, come una “cartina di tornasole”; una definizione che ho letto da qualche parte e che ricordo per la sua esattezza sintetica. Le cose erano tornate alla quasi normalità. Non molto tempo dopo, i capelli erano ricresciuti e l'angoscia si era dileguata. Avevo pure ricominciato a bere alcol e a fumare. Ma, anche se facevo finta di dimenticarmene, ero comunque stato segnato dal marchio della malattia e, nei giorni di maggiore onestà, mi dicevo che, probabilmente a causa di un imprinting familiare che detestavo, l'avevo vissuta come se fosse una cosa da niente, una sciocchezza da mettere alle spalle presto quasi fosse un virus influenzale più aggressivo della norma, e nutrivo il rimpianto di non essere stato abbastanza male, o di non avere avuto per il tumore il sufficiente rispetto.