'Vivo da quarant'anni col 'Grande Inquisitore' di Dostoevskij - racconta Umberto Orsini - da quando cominciai ad occuparmene in occasione dello sceneggiato che alla fine degli anni sessanta fu realizzato da Sandro Bolchi per la Rai e che fu seguito da più di venti milioni di persone per otto settimane di seguito.
Allora interpretavo il fratello Ivan. Per anni mi sono sentito chiedere dal pubblico perché non si vedessero più prodotti di quel genere, sentendo nelle voci un rimpianto e soprattutto una memoria sorprendenti.'
Orsini, oggi, partendo da questa memoria, fa rivivere quel passaggio di Dostoevskij, calandosi nei panni di un immaginario Ivan Karamazov maturo. Si misura, attraverso uno specchio, con il se stesso giovane, quell'ideatore della leggenda che tra nostalgia e sofferenza srotola il suo personale nastro di Krapp.
In scena, accanto al doppio personaggio, Leonardo Capuano, un Mefisto di eco faustiana con il quale l'Inquisitore si industria a classificare temi ossessivi quali fede, mistero, autorità, peccato e libertà.
Un testo, per la regia di Pietro Babina, che è soprattutto un manifesto sulla autoprodotta mancanza di libertà degli uomini: l'Inquisitore si rivolge al Cristo affermando che gli uomini non sanno che farsene della libertà, demandano l'arbitrio ad altri e si deresponsabilizzano. Solo in questo modo paradossalmente si sentono liberi.
Teatro Elfo Puccini di Milano dal 2 al 7 dicembre