La scorsa settimana è stato un gran parlare della situazione economica del Giappone, entrato in recessione. Negli ultimi mesi il Giappone era stato un modello per via della politica economica del premier Shinzo Abe, ribattezzata per l'appunto Abenomics, basata su una politica monetaria espansiva, stimoli fiscali e riforme strutturali che, al contrario delle aspettative, non è riuscita ad ottenere gli effetti sperati.
Ma cosa è successo? L'economia giapponese non è riuscita a replicare la performance del primo trimestre (+6,7% su base annua) ottenendo da aprile a settembre risultati poco entusiasmanti: -1,9% nel secondo e -0,4% nel terzo su base trimestrale. Due trimestri consecutivi di calo del PIL equivalgono, infatti, ad una caduta in recessione.
Nei primi tre mesi dell'anno, la crescita è stata condizionata dai consumatori che, consapevoli dell'imminente aumento dell'IVA (dal 5% all'8%) a partire dal 1° aprile, hanno acquistato molto. Cosa che non è accaduta tra luglio e settembre con le famiglie che, dopo il crollo del secondo trimestre (-5%), non hanno consumato quanto sperato (+0,4%). Si è contratta anche la domanda privata (-0,9%) così come gli investimenti privati: -6,7% su base trimestrale. Di qui il calo del PIL, l'entrata in recessione e la decisione di Tokyo di anticipare le elezioni a dicembre (in pratica un referendum sull'Abenomics) e di posticipare all'aprile del 2017 il nuovo aumento dell'IVA al 10%, programmato a partire dall'ottobre 2015.
Il Giappone in recessione ha dunque alimentato il dibattito che vede contrapposti i fautori dell'austerity da un lato e quanti ritengono opportuno adottare anche in Europa politiche espansive in grado di far ripartire l'economia. La Germania, campione di rigorismo, ha registrato negli ultimi mesi performance non particolarmente brillanti (calo della produzione industriale e calo dell'export da cui dipende Berlino). Al contrario la Grecia, che negli anni della crisi è stata chiamata a procedure di ristrutturazione del debito, è uscita dalla recessione dopo tanti sacrifici. L'economia del paese ellenico è infatti cresciuta dello 0,7% dopo il +0,8% registrato nel primo trimestre e il +0,3% del secondo trimestre. Rispetto al terzo trimestre dello scorso anno, la crescita del PIL greco è stata dell'1,4%.
La Spagna si è impegnata a ridurre la spesa pubblica di 37,6 miliardi dal 2012 al 2015. Tanti i tagli imposti: riduzione del 30% del numero di consiglieri comunali e del 20% dei sussidi a partiti e sindacati, sospensione del tredicesima per parlamentari e funzionari statali e – oltre a numerosi interventi su istruzione e sanità – riduzione delle ferie per i dipendenti pubblici. Il Paese iberico, cresciuto nel terzo trimestre 2014 dello 0,5% su base annua, è così riuscito a ridurre la spesa pubblica dello 0,9%. Per il 2015 il premier Mariano Rajoy vuole mantenerla inferiore ai 129 miliardi (-3,2% rispetto al 2014). Troppe sono, però, le persone alla ricerca di un lavoro: il tasso di disoccupazione è, seppure in calo, ancora al 23,6%.
Dal 2011 al 2013 nessuno in Europa ha fatto meglio dell'Irlanda, uscita a dicembre dal programma triennale di aiuti internazionali da 67,5 miliardi. Dopo il piano di tagli per 7,8 miliardi dell'aprile 2010, Dublino ha ridotto il peso della spesa pubblica del 4% (dal 47,1% al 42,9%, secondo l'Eurostat). Il risultato è stato reso possibile, inoltre, dal taglio del numero dei dipendenti pubblici (destinato a calare ulteriormente entro il 2015) e dal maggior controllo sul welfare. Nel secondo trimestre 2014 il PIL irlandese è cresciuto del 7,7% su base annua. Come? Soprattutto grazie all'export (+13%) e ai consumi privati (+1,8%). Mentre il tasso di disoccupazione resta alto (11%), seppure inferiore a quello spagnolo.
Il PIL, per quanto fondamentale, non è tuttavia l'unico indicatore di cui tenere conto per capire se la crescita di un Paese è realmente sana. Il rapporto debito privato/PIL è altrettanto importante e i consumi sono calati soprattutto nei paesi, ad esempio Spagna e Irlanda, in cui i debiti privati sono cresciuti di più. Così i piani di salvataggio hanno fatto lievitare i debiti sovrani.
L'austerità sta quindi premiando quei paesi costretti a sacrifici e che si sono dimostrati disciplinati. Eppure proseguire capillarmente su questa strada – senza incentivare in maniera concreta la crescita – potrebbe essere dannoso nel lungo periodo. Di qui la richiesta di una maggiore flessibilità per rilanciare gli investimenti e i consumi. Quest'ultimi determinanti come evidenziato, a suo modo, dal caso giapponese.