Pensioni: il Paese non cresce e il Pil “taglia” gli assegni
È l'effetto del metodo contributivo e della rivalutazione dei montanti adottati con la legge Fornero del 2011
Il concetto è apparentemente semplice: se il Pil scende, scendono anche le pensioni. Dopo la riforma Dini del 1995 e soprattutto la riforma Fornero del 2011 che ha accantonato in via definitiva il metodo retributivo, quello contributivo è ormai la prassi. Con questo sistema la pensione è legata esclusivamente all'ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa. Solo che l'assegno pensionistico si calcola sulla base del tasso di capitalizzazione.
Si tratta, in pratica, della rivalutazione dei montanti contributivi (il montante è quanto viene accumulato nella contribuzione) che avviene alla fine dell'anno in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). O, per meglio dire, è il calcolo che spetta all'Istat sulla serie storica del Pil, vale a dire gli ultimi cinque anni. E gli ultimi cinque anni, inutile starlo a ricordare, non sono stati dei migliori, specie la performance negativa del 2009 quando si evidenziò una diminuzione del 5%. Il tutto, infine, viene moltiplicato per il coefficiente di trasformazione, che dipende invece dalle aspettative di vita.
Il problema di cui si discute in queste ore dipende dal tasso di capitalizzazione che, per la prima volta, a causa, appunto, dell'andamento poco esaltante dell'economia italiana, si attesta sul valore negativo di -0,1927%. Con il rischio, per dirla altrimenti, che l'assegno previdenziale subisca una pesante svalutazione. Un pasticcio che potrebbe reiterarsi nel tempo, considerate anche le previsioni sul Pil che lo danno in crescita a ritmi troppo lenti: +0,5% nel 2015 e +1% nel 2016 dopo il segno meno (-0,3%) di quest'anno.
I pilastri della riforma Fornero delle pensioni (2011), oltre che al metodo contributivo, riguardavano l'aumento dell'età pensionabile (67 anni) e la de-indicizzazione (temporanea) delle pensioni superiori ai 1.500 euro, ovvero non adeguate all'inflazione. Più in generale, secondo il recente rapporto del Centro Europa Ricerche (Cer), le condizioni di disagio dei pensionati italiani sono cresciute a partire proprio dal 1995. Da quell'anno, e fino al 2013, il meccanismo di indicizzazione ha danneggiato i redditi più bassi e in particolare, dal 2009, il potere d'acquisto dei pensionati è calato del 4%.
Nel 2013 il 43,5% dei pensionati (pari a 6,8 milioni di persone, dati dell'ultimo rapporto annuale dell'Inps) disponeva di un assegno pensionistico inferiore ai mille euro al mese. Il 13,4% del campione non raggiungeva nemmeno i 500 euro, per una spesa relativa alla fascia più povera dei pensionati di 52,4 miliardi di euro (il 19,7% della spesa totale).
Il percorso a ostacoli del sistema pensionistico potrebbe, dunque, aggravarsi (salvo un tempestivo intervento della politica) in vista di quella percentuale – -0,1927% – che deriva dalla fase recessiva che sta coinvolgendo l'economia italiana. Con una maggiore penalizzazione, in prospettiva (e considerando una crescita debole anche nei prossimi anni), per i lavoratori più giovani che rientrano a tutti gli effetti nel metodo contributivo adottato dalla riforma del governo Monti. Per loro, e per coloro che hanno intrapreso un'attività lavorativa prima del 1995 in relazione all'anzianità di servizio, il montante aumenta se il Pil va su. In caso contrario è come si diceva all'inizio: se il Pil scende, la rivalutazione avviene al ribasso. E stando così le cose i contributi versati e rivalutati potrebbero di fatto diminuire, con il rischio di procedere al taglio delle pensioni future.
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