Dell'Italia è letteralmente innamorato. Della sua inventiva, della sua "cultura del fare", della sua creatività. Ecco perché Luca Caprai, patron del marchio Cruciani, a delocalizzare non ci pensa proprio. Lui i suoi braccialetti, le maglie in cashmere, le borse e i foulard, li fa tutti nel suo Paese. E li fa a 360 gradi: dal design alla produzione, dalla lavorazione al packaging, è tutto sul territorio nazionale. Nonostante la crisi, nonostante le tasse alte, nonostante i frequenti disservizi. Ci ha risposto da Dubai, in uno dei suoi frequenti viaggi di lavoro, per raccontarci la sua storia di un imprenditore italiano al cento per cento.
Cruciani punta tutto sulla qualità del made in Italy. Perché?
"Perché lavorare in Italia è molto più facile che lavorare all'estero, soprattutto in quello che è il nostro core business, l'abbigliamento e la moda. In Italia si fanno vestiti da anni. E il made in Italy è un sistema di aziende che producono qualità. Tra l'altro, non solo nell'abbigliamento: siamo forti nell'arredamento, nella gastronomia, nella pelletteria. Siamo un marchio altamente qualificato dovunque nel mondo".
Fin qui il positivo. Ma ci sono anche le difficoltà, e sono tante.
"Purtroppo questo marchio di qualità è azzoppato dalle difficoltà del sistema Paese, che si basa su tante, troppe tasse, che pesano in grandissima parte sul lavoro dipendente, unica categoria che in Italia non può evadere. In tanti delocalizzano proprio per sfuggire a questo macigno. Noi invece abbiamo preferito continuare a produrre tutto in Italia, dove la nostra famiglia ha il totale, o parziale, controllo di vari brand e dà lavoro a 500 dipendenti. Siamo la prova vivente che in Italia si può lavorare bene e a costi accettabili".
C'è chi non la pensa così, visti tutti quelli che se ne vanno. Voi come avete fatto?
"In Italia si può lavorare contrattando e concludendo accordi e ammortizzando i costi grazie alla quantità e alle economie di scala. Noi abbiamo intese con tanti fornitori e riusciamo a ottenere il miglior prezzo possibile. Abbiamo avuto la fortuna di diventare un marchio e questo ci ha permesso di rimanere in Italia, con i costi dell'Italia".
Fatturato e dipendenti del gruppo negli ultimi anni sono cresciuti: Cruciani nel 2011 fatturava 14,9 milioni di euro, oggi è arrivata a 74. E anche i dipendenti, 500 in tutto, dal 2008 sono aumentati. Quali sono state le vostre carte vincenti?
"Non c'è una ricetta precisa. Crescere significa saper fare, saper comunicare, avere la forza, la voglia, il coraggio di continuare a investire. Non si tratta di una scienza esatta. Noi abbiamo sfruttato i proventi degli ultimi 3-4 anni non per fare cassa o per comprarci case o barche, ma per reinvestire e continuare a fare bene i nostri prodotti. Non bastano l'amore e il sacrificio, che ogni imprenditore ha per la sua azienda. Ci vogliono soldi, idee chiare e investimenti giusti".
Cosa ha fatto la differenza per voi negli ultimi tempi?
"In tre anni abbiamo aperto cento negozi in giro per il mondo: da Dubai a Taiwan, alla Corea. Un'operazione che ha significato per tutti noi lacrime e sangue. I nostri investimenti puntano a tre semplici obiettivi: successo dell'azienda, soddisfazione del consumatore e benessere del dipendente. Nella mia azienda il clima è sereno e si respira sicurezza. Nessuno parla di ristrutturazione, si parla piuttosto di come fare meglio, di progetti e di idee".
Alta tassazione e aumento dei costi di produzione: come avete superato questi problemi?
"Abbiamo scelto la politica di non fare sconti, saldi, vendite promozionali. Una politica che secondo me tradisce il consumatore. Noi offriamo subito il prezzo migliore e così facendo ci guadagniamo la fiducia del cliente: lui sa che, in ogni momento, paga il prezzo giusto".
La vostra famiglia produce i pizzi e i merletti della tradizione Caprai, ma anche vini, e poi ci sono i braccialetti, i maglioni in cashmere, le borse Cruciani. Cosa significa per voi differenziare l'attività?
"La mia famiglia storicamente ha sempre puntato sulla diversificazione e la mia generazione ha scelto di specializzarsi. Io ho puntato su abbigliamento e accessori, mio fratello sul vino. Ognuno di noi è uno specialista nel suo settore".
Come vi spiegate che aziende prestigiose, come quelle segnalate nella puntata di "Report" sulle "oche" di Moncler, producano all'estero diverse collezioni moda note per essere "made in Italy"?
"A me sinceramente questo sembra assolutamente paradossale. Mettiamola così: non sono un ingenuo, so che cose simili accadono, ma non ci credo".
Cosa manca al tessuto produttivo italiano? Perché non riusciamo a venir fuori da questa crisi?
"Il sistema Italia ha i suoi problemi. Non do la colpa a Renzi. Oggi le nostre industrie hanno uno svantaggio competitivo indubbio rispetto a Paesi a due passi da noi, come la Germania o la Svizzera. Tempo fa si diceva 'usciamo dall'euro'. Io rispondo 'fateci entrare nell'euro'. Lo spread continua a penalizzare le aziende italiane che oggi investono e che per farlo sono costrette a pagare molto di più dei loro colleghi tedeschi. Per non parlare dei Paesi extraeuropei. Da dove vengono i miliardari? Dalla Cina, dall'India, dall'Arabia: e vengono a comprarsi le nostre aziende. Io però il politico non lo so fare. E continuo a concentrarmi sul mio lavoro, che cerco di fare bene. Con un particolare che mi piace sottolineare: quando faccio l'organigramma, lo scrivo su una tavola ovale, perché credo che le aziende possano funzionare bene sopratutto se si fa gruppo. Anche senza troppe scale gerarchiche".