Competitività

La ricetta anti-crisi: essere competitivi per tornare a crescere

Nonostante le difficoltà l'Italia conferma un elevato surplus commerciale manifatturiero con l'estero

© ap-lapresse

La buona notizia è che a ottobre l'indice del clima di fiducia delle imprese risulta in risalita, trainato anche dalle attese positive sugli ordini. La cattiva notizia, ammesso e non concesso che ce ne fosse soltanto una, è che il quadro macroecomico del paese, viste le fasi altalenanti, resta incerto e una ripresa propriamente detta stenta a decollare.

Tale condizione non deve però stupire. È figlia di una situazione che, nel suo complesso, coinvolge l'intera eurozona. Basti pensare che mentre in Italia torna un pizzico di ottimismo, in Germania rilevano il peggor dato relativo al clima di fiducia delle imprese da dicembre 2012. È il segno evidente, se vogliamo, dell'eccessivo tecnicismo che ha caratterizzato le politiche comunitarie degli ultimi tempi: l'esigenza di nuovi investimenti non può, non deve, scalfire l'impegno del pareggio di bilancio secondo gli oltranzisti del rigore. Ma la crisi ha impattato con minore irruenza laddove vige un sistema paese competitivo. E la competitività delle imprese dipende, inevitabilmente, dal contesto istituzionale, sociale, politico, culturale ed economico in cui operano.

Quando si parla di competitività ci si riferisce sostanzialmente alla capacità di un'azienda (ma anche di un ente pubblico) di stare sul mercato nel lungo periodo – rinnovandosi di continuo – e di "competere", appunto, con la concorrenza. Quante imprese italiane riescono ancora a farlo in Italia? È una domanda legittima, a fronte di due considerazioni di merito. La prima: oltre il 90% del nostro tessuto industriale è composto principalmente di piccole e medie imprese talvolta non in grado di sostenere nuovi investimenti a causa della stretta del credito e delle contingenze del momento. La seconda: istituti di ricerca ed enti vari hanno registrato negli anni della crisi un alto tasso di mortalità delle imprese, con un saldo natalità/mortalità spesso negativo.

Avvalendoci della classificazione che l'Istat stila nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi, possiamo catalogare le imprese italiane in questo modo: "vincenti”; "crescenti all'estero”; "crescenti in Italia”; "in ripiegamento".

Nel primo caso rientrano quelle – 4.600 unità, pari al 18,1% – che hanno visto aumentare il proprio fatturato (il periodo di riferimento è il 2011-2013), sia in Italia che all'estero. Nel secondo caso vengono contemplate le 8.500 imprese (33%) che hanno visto aumentare il fatturato estero ma ridotto quello interno. Il terzo caso comprende 3.400 unità (13,3%) e sono quelle imprese che mantengono performance soddisfacenti in Italia, ma che hanno diminuito il fatturato all'estero. Infine le imprese "in ripiegamento", ovvero quelle (9.100 unità, 35,6%) il cui fatturato è diminuito sia in ambito nazionale che sui mercati internazionali.

Tra la prima e la quarta classe vi è un differenziale di 4.500 unità, a dimostrazione di una minoranza relativa che può dirsi altamente "vincente”. Ma il rapporto spiega anche altro: all'estero manteniamo un'invidiabile leadership. Le aziende "vincenti”, o comunque quelle che tendono a performance più elevate, rappresentano quindi un modello. Sono le tipologie, infatti, che investono maggiormente in capitale umano con l'attivazione di programmi di formazione, che adottano efficaci strategie di connettività produttiva ("relazioni produttive con altri soggetti") e di innovazione. È una strategia perdente, invece, adagiarsi sugli allori, ridimensionare l'attività a esclusiva difesa della quota di mercato.

Ora, come si diceva all'inizio, la competitività è di norma favorita dall'incontro di diversi fattori che qualificano il sistema paese. Dalle istituzioni al benessere, dal livello di istruzione dei cittadini a quello tecnologico, dal quadro macroeconomico alla bilancia commerciale, dalle infrastrutture all'innovazione. In molte di queste componenti arranchiamo, non c'è che dire. Si ricordi che l'Italia si colloca al 46esimo posto (su 60) nella classifica mondiale sulla competitività dell'Institute For Management Development. Eppure negli anni della crisi abbiamo confermato un surplus commerciale manifatturiero con l'estero elevato, trainati dalle eccellenze del Made in Italy. A conferma del fatto che non tutto è compromesso. In particolare al cospetto di una capacità di conservare uno spazio rilevante nel mercato internazionale nonostante gli stravolgimenti della globalizzazione dettati dall'ingresso di nuovi attori, la Cina su tutti. Un tale patrimonio non può andare disperso.