Non si configura un reato di maltrattamento se un marito picchia e offende la moglie ma lei fa altrettanto con il marito. L'imputato, poiché non prevarica sulla parte lesa assoggettandola, deve essere assolto. E' la conclusione di un giudice del tribunale di Roma dopo che un uomo è stato citato a giudizio perchè accusato di malmenare ed offendere ripetutamente la moglie alla presenza in casa della figlia minore.
Contrariamente al pm che aveva chiesto per l'imputato una condanna a otto mesi di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche, perché tali maltrattamenti avrebbero procurato nella vittima "sofferenze fisiche e psichiche", il tribunale ha recepito le argomentazioni della difesa, rappresentata dall'avvocato Giuseppe Campanelli, che si era pronunciata per l'assoluzione.
Il giudice Campolo si è limitato a prendere atto di quanto raccontato in udienza dalla moglie dell'imputato, peraltro unica testimone d'accusa nella vicenda avendo sporto denuncia dopo la lite furibonda di 6 anni fa. Dalle carte processuali è emerso che la coppia, coniugata dal '92, all'epoca dei fatti era alle prese con i tentativi di lui di uscire dalla tossicodipendenza. Questo problema rappresentava forse la vera causa delle ripetute discussioni che avevano convinto la donna ad avanzare domanda di separazione, poi lasciata cadere in seguito a una riconciliazione con il partner, rimessosi pienamente in carreggiata grazie un programma di recupero terapeutico.
La teste ha riferito che nel corso di queste liti i coniugi "si insultavano". Lui talvolta colpiva lei con uno spintone o con uno schiaffo, ma lei "aveva l'abitudine" di restituire i colpi subiti. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice ha scritto in effetti che "sebbene risulti che l'imputato ha percosso la denunciante, dalle stesse dichiarazioni della parte offesa si evince anche che gli episodi violenti non erano abituali. Frequenti, invece, erano le discussioni animate tra i due, nel corso delle quali entrambi erano soliti offendersi".
Insomma nessun elemento di prova per sostenere che la condotta contestata all'imputato "fu posta in essere con quella abitualita' necessaria per integrare gli estremi del reato e, se comunque fu tale, per poter configurare un maltrattamento anche solo morale, al fine di porre la vittima in uno stato di soggezione". Si deve parlare, invece, di "non consumazione del delitto" perche' "nelle loro discussioni i coniugi usavano parole offensive" e "se l'imputato colpiva con uno schiaffo la moglie, lei stessa, come ha affermato, glielo ridava".