Tgcom24 esplora da alcune settimane il mondo dell'occupazione al tempo della crisi. In questo articolo racconta le storie di quattro laureati che hanno intrapreso percorsi lavorativi "non convenzionali". Leggi anche gli altri articoli dello speciale Sos Lavoro sugli italiani all'estero, gli errori di chi si propone per una posizione, le potenzialità del web, il mondo della pubblica amministrazione, la giungla degli stage, l'importanza di fare cv e colloquio perfetti, i contratti esistenti, il mondo degli autonomi, gli effetti della riforma Fornero, le regole del licenziamento, il mobbing, il ruolo dei sindacati.
Piero, Nicola&Francesco, Giuseppe e Paola sono trentenni preparati e coraggiosi che hanno attaccato al chiodo il proprio diploma per seguire un percorso artigianale molto diverso dagli studi compiuti. Non sono però, mosche bianche. Come racconta il blog http://www.laureatiartigiani.it/, il fenomeno è sempre più in crescita. Ben il 61,4 per cento di ex universitari italiani confessa ad AlmaLaurea: "Il pezzo di carta non mi è servito affatto o in modo minimo per svolgere l'attuale lavoro". Ecco come hanno messo da parte il titolo di dottori per abbracciare mestieri antichi e manuali.
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DALL'ASTRONOMIA ALLE GONDOLE
Piero Dri ha preferito la pialla al cannocchiale: 31 anni, laureato in astronomia all'università di Padova, professione remèr, cioè costruttore di remi e forcole per gondole. Dopo la laurea ha deciso di praticare una mestiere con settecento anni di storia, ma che con le stelle ha poco a che fare. "Nel mio laboratorio a Santa Sofia - racconta a Tgcom24, - realizzo i remi per le gondole e le altre imbarcazioni veneziane sicuramente meno conosciute ma molto belle e usate ancor oggi per sport, per le competizioni come la famosa "regata Storica", ma anche per diletto. Il remo nella voga alla veneta si poggia su particolari supporti chiamati "forcole". Ogni barca ha una forcola specifica realizzata anche su misura dell'utilizzatore. Insieme ai remi costruisco quindi le "forcole", oggetti scultorei dalle molteplici forme e curve, ricavati a mano da un unico blocco di legno di noce. Date le loro qualità artistiche, anche chi non è del posto e non possiede una barca a remi può apprezzare le forcole come originali sculture e come ricordi di Venezia".
Un amore, quello per gli strumenti della navigazione lagunare, nato come antidoto al possibile e quasi ineluttabile precariato post lauream: "Non so cos'avrei fatto senza la mia grande passione per Venezia, per la voga, per le barche veneziane. Mi ha dato la forza e lo spunto di finire l'università con successo e di guardare oltre. Di fatto non ho quindi mai cercato un lavoro come astronomo. Ho sentito il forte bisogno di ambire a qualcosa di diverso da quanto riservato in questi anni a un ricercatore universitario: precariato, nomadismo, salari ingiusti. Poi non volevo andare all'estero: mi affannava l'idea che se uno non va lontano, oggi, non conta niente. Quindi mi sono ribellato a quest'ottica e me ne sono restato in Italia, con fiducia. Ho preferito tessere un forte legame con la mia città, senza chiedere niente a nessuno, facendo forza solo sulla mia formazione scientifica che mi aiuta non poco nella gestione dell'attività sotto gli aspetti tecnici, pratici, burocratici, fiscali".
La quotidianità non è però, priva di ostacoli e salite: "Il nome della mia ditta - conclude Piero - è "Il Forcolaio Matto" dove matto sta a indicare un po' la difficoltà che s'incontra nell'avviciniarsi alle professioni del passato o ritenute tali. Nel nostro Paese, poi, non c'è alcun incentivo per i giovani se non di facciata. Ti devi fare da solo, con una vena di pazzia, forse, sorretto solo da forte passione. Il mio laboratorio vuole essere testimonianza che ancora oggi i mestieri tradizionali hanno un significato. Scegliere di aprire in controtendenza un'attività artigiana, per certi aspetti anomala e sicuramente umile, è stato per me scommettere in una società più giusta, in cui non contano solo i soldi ma anche la semplicità delle relazioni umane. Il mio obiettivo è rendere Venezia una città più vera, più abitata, meno schiava del turismo e più attenta ai suoi cittadini. Forse per andare avanti ci si deve ridimensionare e tornare un po' indietro nel tempo".
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DALLA FILOSOFIA ALLE TROTTOLE DI LEGNO
Francesco Bramucci e Nicola Socciarello hanno studiato filosofia ma oggi costruiscono giochi in legno per i più piccini. Per la loro attività hanno scelto un nome che è uno sberleffo e un manifesto allo stesso tempo: Figli di trottola. A Tgcom24 Francesco racconta come è nato questo progetto: "Abbiamo cercato di fare del gioco un lavoro e del lavoro qualcosa che producesse gioco. Il nome ce lo hanno affibbiato degli amici, e loro no, non sbagliavano, e ancora suscita ilarità tra le mamme e i papà i cui bimbi provano giochi mai visti o dimenticati. Abbiamo iniziato – Nicola per la verità, poi sono arrivato io dalla Bolivia – con qualche balocco e scarne trottole. In questo senso ne siamo figli. "Figli di trottola”, questo siamo, e da allora il nostro banco è cresciuto e si è fatto più variopinto. Con la speranza di fare sempre meglio".
E la loro produzione è davvero vastissima: "Faccio piccoli cavallini, a dondolo o su ruote, eventualmente con cavaliere armato di tutto punto, e poi barchette, elicotteri, macchinine, trenini; pistoline e balestre spara elastici con relativi bersagli, castelli, spade e scudi; rompicapo, bacchette magiche e altre bizzarrie, tra cui una pipetta che soffia una pallina per aria o una sorta di "gira la moda" ante litteram. Nicola invece realizza trottole di ogni tipo, e solo questo è un mondo vastissimo e altrettanto antico, trottole con filo o senza, trottole che si ribaltano o si autoricaricano, trottole variopinte o realizzate assemblando diverse essenze di legno. E poi: giochi di manualità o da tavolo, scacchiere, giochi sensoriali e piste in cui lanciare pedine. Infine dei bellissimi robot in legno, un ottimo ossimoro adatto ai nostri tempi. Insomma, tutti giocattoli che stimolano manualità e fantasia, che spingono a padroneggiare tutte le dita della mano e non solo pollice e indice, come in un comune videogames".
Sì, ma la filosofia che c'entra? "Non c'è settore umano, o ambito, o sfera, che le sia del tutto estraneo. Neanche quella del giocattolaio, a ben vedere, così come non è stato d'ostacolo a Spinoza esercitare la professione di ottico. Nel mio caso non credo si possa parlare di un piano B, e non mi riferisco soltanto alla mia professione attuale che consiste nel realizzare giocattoli in legno e nel portarli nelle piazze. Considero ogni mia occupazione passata un piano A, grazie al quale ponevo le basi della mia futura indipendenza economica e mi arricchivo di interessanti esperienze".
E da perfetto filosofo, Francesco dà consistenza teoretica alla sua attività: "Le ragioni sono tutte contenute nella mia tesi di laurea sul concetto di lavoro in Simone Weil. Per lei il lavoro è strumento di conoscenza, stoica accettazione e preghiera. A me interessava mettere in pratica alcune acquisizioni di tale ricerca, soprattutto il lavoro come attività lucida in grado di radicare, anziché alienare, l'individuo e un'intera comunità. L'approdo nel mondo dei giocattoli in legno ha solo colorato di meraviglia e di ludica curiosità il mio percorso"
"Faccio un mestiere dal sapore antico, itinerante e di bottega - ammette Francesco - e con enorme fatica tentiamo di competere con le moderne modalità di produzione industriale e con le difficoltà che derivano da una fiscalità esagerata". Le soddisfazioni invece, per Francesco e Nicola arrivano dal laboratorio e ancora di più in piazza: "Tra il giubilo dei bimbi, lo stupore dei genitori abituati a plastica o al made in china, e quello dei nonni che, ce lo ripetono infinite volte, ritornano indietro di decenni. Rimangono le difficoltà, per esempio quella di arrivare a fine mese. Nonostante tutto, sceglierei ancora questa professione. D'altronde, sarebbe meglio o meno spericolato ipotizzare un piano C?"
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DALLA SOCIOLOGIA ALLE FETTUCCINE
Il 33enne Giuseppe Castelli ha speso in cucina la propria laurea in scienze politiche. È il fondatore del laboratorio "Le mani in pasta" nella sua Termoli, in Molise. "Dopo gli studi - confessa ai microfoni di Tgcom24 - non riuscivo a costruire una mia precisa identità professionale. Ho sempre avuto diverse passioni e così ho accumulato competenze trasversali in diversi ambiti. Aspetto, questo, non contemplato dall'attuale mercato del lavoro dove il matching domanda-offerta prevede la perfetta corrispondenza tra posizione lavorativa e candidato: nessuno pensa che la persona si può formare all'interno dell'azienda."
La quotidianità di Giuseppe è oggi scandita non da esperimenti sociologici, ma da trafile e farine: "Attualmente i prodotti che realizzo sono quelli tipici: dalla pasta all'uovo a quella ripiena, in tutte le declinazioni possibili. Ma l'intenzione è quella di ripensare alle professioni del passato secondo i principi dell'innovazione e della creatività. Sto lavorando a un progetto di bottega di mestieri con un'imprenditrice lombarda: una serie di negozi dove saranno raccolte le figure tipiche dell'artigianato locale, dal panettiere al pastaio con il plus del controllo totale della filiera, ma per ora non posso dire altro".
Impresa facile cominciare da zero un'attività autonoma? "Niente affatto - dice Giuseppe. - I maggiori ostacoli sono stati la burocrazia e il rapporto con la pubblica amministrazione più in generale". Per resistere quindi, non basta un po' di generico entusiasmo iniziale: "Per avviare un'attività commerciale oggi servono coraggio, tenacia e tanta testardaggine".
E se tanti possono essere gli intoppi, per Castelli sono almeno altrettanti gli incentivi: "Lo stipendio fisso è comodo e rassicurante, ma il mestiere dell'artigiano/imprenditore dà grandi soddisfazioni a partire dal rapporto con i clienti, passando per l'autogestione dei propri orari di lavoro e la sensazione di aver creato qualcosa a tua immagine. Anche la percezione forte del rischio ha un fascino tutto suo".
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DALL'ARCHITETTURA AI GIOIELLI
Paola Vanazzi, 31enne architetto milanese, ha deciso di progettare e realizzare non palazzi, ma piccoli capolavori in miniatura. "Realizzo gioielli in acciaio inox - dice a Tgcom24 - progettando le creazioni con un software grafico, strumento che ho imparato a utilizzare da architetto, poi passo al taglio, alla saldatura dei perni e degli elementi che lo compongono, per poi levigarli e lucidarli. Il percorso che mi ha portato autilizzare questi materiali è stato lungo perché desideravo realizzare qualcosa di semplice, ma che si discostasse dal concetto di gioiello tradizionale a cui tutti siamo abituati. Nella mia azienda, seFem design, sperimento diversi materiali oltre l'acciaio, come ottone e ultimamente le resine, in questo ultimo caso il processo è più complesso, si utilizzano le tecniche tradizionali dell'arte orafa, con la differenza del materiale, infatti nel mio caso sostituisco la resina ai metalli preziosi. Mentre per quanto riguarda la progettazione vera e propria, traggo ispirazione da elementi del quotidiano, una forma, un elemento che mi colpisce cerco di tramutarlo in elemento materico".
Perché però, non ha scelto una carriera più tradizionale? "La mia attività di designer di gioielli - risposnde - ha come fondamento di base la progettazione. Tutto ciò che sta alla base di quest'ultima, dalla ricerca di riferimenti, ai modelli di geometrie applicabili, sono frutto della mia formazione universitaria e dagli studi alla facoltà di Architettura. Quando mi sono laureata il settore dell'architettura dava molte opportunità di lavoro ai giovani ed il livello lavorativo era molto alto; infatti ho svolto per diversi anni l'attività di architetto in alcuni studi di professionali; tuttavia negli ultimi tempi la crisi ha colpito anche questo settore, in poco tempo mi sono trovata dal dover gestire una giornata lavorativamente appagante, all'insoddisfazione totale dovuta alla mancanza di commesse, per cui ho sentito la necessità di trovare nuovi stimoli reinventandomi una nuova attività fortemente collegata alla mia formazione".
Oggi è l'anima creativa e appassionata di seFem design, un marchio, spiega, "nato in forte correlazione con le mie origini lombarde. La parola “seFem” è un termine di tipo dialettale della zona in cui vivo che, tradotto in italiano, significa “cosa facciamo?!!”. Penso che negli ultimi anni di crisi generale, tale frase inquadri la situazione di molte persone, soprattutto giovani che si trovano senza lavoro e senza prospettive e che si chiedono cosa possono fare per riuscire a fare ciò in cui credono. Sefem ha quindi una doppia valenza, da una parte riconosce il grave periodo di difficoltà, dall'altra prova a non cadere nella frustrazione che la mancanza di opportunità ci porterebbe, si pone infatti come uno stimolo per provare a muovere una condizione che sembra immobile. Con Sefem Design nasce un gioiello futuristico che vuole guardare avanti, di carattere, e allo stesso tempo leggero e delicato".
"A livello personale posso dire di far parte della categoria di persone che amo definire "creativi tormentati", sempre alla ricerca del prodotto perfetto e mai soddisfatti a pieno di ciò che fanno. Tuttavia devo ammettere che questo lavoro mi carica di soddisfazione, tante persone mi danno i loro riscontri positivi e questo è importantissimo. A livello retributivo sto ancora investendo molto, quindi non posso dire di essere completamente sollevata dalla questione economica, so che la strada è lunga, devo ancora lavorare molto, perché ho molte idee da realizzare".