Un dramma dolceamaro, grande metafora di una tragedia come quella del nazifascismo. E' "Il bell'Antonio" di Vitaliano Brancati che ora, nella versione teatrale diretta da Giancarlo Sepe, approda al teatro Manzoni di Milano fino al 26 gennaio. "Ci sembrava doveroso riscattare questo testo da riduzioni passate non all'altezza - dice a Tgcom24 Andrea Giordana, protagonista con Giancarlo Zanetti - e far riscoprire Brancati alle nuove generazioni".
Per capire l'importanza de "Il bell'Antonio" basterebbe il fatto che nel mondo, dopo "Il Gattopardo", è il secondo romanzo italiano più letto e amato. Un lucido affresco dell'Italia fatto attraverso un meccanismo concentrico che, dal sistema nazione, dalla storia di un Paese in grande difficoltà durante il periodo fascista, fotografa una microstoria in Sicilia di una famiglia e del suo bell'Antonio, personaggio alle prese con un dramma personale, che è quello dell'impotenza, vissuta in una società che la vedeva come un'onta insostenibile.
Eppure il romanzo di Brancati negli anni passati ha goduto solo di una riduzione teatrale e di una versione cinematografica, diretta da Bolognini e interpretata da Marcello Mastroianni. Entrambe, a dire il vero, non all'altezza. "Nella versione teatrale, con Turi Ferro - spiega Giordana -, è stato snaturato il personaggio di Antonio e non fu un grande spettacolo. Mentre quello di Bolognini non è un film riuscito: decontestualizzato, non si capisce il perché del momento storico. Non c'è il profumo della Sicilia, sembra un altro mondo. E' il problema di questo uomo non assurge mai a metafora di niente".
La vostra edizione invece su cosa punta?
La riduzione realizzata da Antonia Brancati e Simona Celi va al cuore del romanzo di Brancati, che è una grande metafora del confronto tra l'onnipotenza del nazifascismo e la fragilità umana, che può portare a un malessere come quello di Antonio.
Possiamo dire che sia proprio il significato metaforico del testo a rendrlo ancora attuale?
Sicuramente, ma a mantenere attuale la scrittura di Brancati è soprattutto la sua qualità. E' bella, sagace, piena di ironia e con una capacità di leggere la società catanese di quel tempo mirabile, che ci restituisce una foto d'epoca meravigliosa. Ci sembrava doveroso, anche verso le nuove generazioni, che magari non lo conoscono, dare uno a stimolo a rileggerlo e riscoprirlo.
Questo è uno spettacolo dai molti intrecci personali: ritrova in scena un vecchio compagno di lavoro come Zanetti e ha come protagonista suo figlio Luchino.
Con Giancarlo abbiamo lavorato per otto anni. Dopo che le nostre strade si erano divise, quest'anno è tornato proprio lui, in veste di produttore, a propormi questo spettacolo. Il test con l'idea di fare recitare la parte di a mio figlio. E devo dire che l'idea mi entusiasmava molto. A questo devo aggiungere la regia di Giancarlo Sepe, che è uno dei pochi registi che si accosta al teatro con uno spirito cinematografico: le sue regie sono sempre più somiglianti al bel cinema che al bel teatro.
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