"Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti". La Corte d'assise d'appello dell'Aquila motiva così la sentenza di secondo grado con cui ha condannato Salvatore Parolisi a 30 anni di reclusione per l'omicidio della moglie, Melania Rea, scomparsa il 18 aprile 2011. I difensori dell'ex caporalmaggiore hanno annunciato che ricorreranno in Cassazione.
Nelle motivazioni, riferendosi agli indizi, si legge che "precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile e, perciò non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi".
"Contaminazioni da eco mediatica" - Secondo la Corte, inoltre, il risalto mediatico della vicenda potrebbe "avere inevitabilmente influito sulla genuinità dei ricordi delle persone informate sui fatti", ricordi "inconsapevolmente contaminati dalle notizie e dalle immagini ripetutamente diffuse dai mass media". Tuttavia, "ciò che nella specie conforta l'attendibilità delle dichiarazioni testimoniali è il riscontrarsi reciproco dei riferimenti anche tra persone che non hanno avuto modo di confrontare le rispettive percezioni, perché non facenti parte dello stesso gruppo di amici o dello stesso nucleo familiare".
"Parolisi ha mentito" - Dopo aver esaminato le testimonianze, la Corte fa notare che "tutte le persone presenti hanno avuto modo di vedersi e ricordare di essersi viste reciprocamente, ma nessuno ha visto Parolisi e la figlia nei pressi delle altalene e ciò conduce alla logica conclusione che non ci fossero, e che l'imputato abbia sul punto, già solo per la concludenza di siffatti riferimenti testimoniali, evidentemente mentito". Melania, continuano le motivazioni, "non può essere scomparsa dal luogo e nell'orario indicati dal Parolisi", mentre Salvatore "non è rimasto con la figlia nella zona delle altalene dopo l'asserito allontanamento e fino ai primi tentativi di chiamata all'utenza cellulare della moglie".