DISCONTINUO

"Artpop", un album in mezzo al guado

Lady Gaga ritorna con un lavoro estremamente vario (pure troppo), tra alti e bassi e una voglia di rinnovarsi non ancora espressa del tutto

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Quando vieni incoronata "regina del pop" e ti comporti di conseguenza, muoversi in un panorama insidioso come quello della discografia diventa sempre più complicato, con gli occhi di milioni di persone addosso, pronte a impallinarti al primo passo falso. Per Lady Gaga l'appuntamento con il terzo album è apparso sin dall'inizio caricato di una attesa febbrile, figlia del fardello (che molti vorrebbero avere) delle milioni di copie vendute con i due lavori precedenti.

Come sempre stupire è facile, ripetersi è molto più complicato. Sopratutto se si hanno ambizioni evidenti di emanciparsi dal personaggio che si è creato in precedenza. E così con "Artpop" Gaga ha puntato a un lavoro ambizioso, sin dalla copertina: quando si coinvolgono per un progetto musicale, personalità come Marina Abramovic e Jeff Koons, comunque la si pensi su di loro, e si intitola l'album "Artopop", è evidente la voglia di accreditare la propria opera a livello di arte contemporanea.

Ma, alla fine, sempre di canzonette stiamo parlando, ed è su questo fronte che si evidenza qualche cedimento. Il difetto di "Artpop" è intrinsecamente legato a quello che potrebbe essere il suo pregio: una multiformità che lascia interdetti e conduce su un ottovolante che può inebriare ma anche provocare qualche senso di nausea. L'album riflette i mille look che Gaga ha mostrato in una campagna promozionale lunga ed eccessiva, dove il suo corpo è diventato, più ancora che in passato, un mezzo di espressione e comunicazione sfruttato fino all'ultimo angolo mostrabile. Allo stesso modo "Artpop" è un continuo mutamento, ma anche una prevaricazione dell'apparire sull'essere spesso fino a se stessa. Gli arrangiamenti sopra le righe hanno sempre fatto parte del bagaglio di Lady Gaga, ma in passato andavano a rivestire melodie formalmente inattaccabili, dal tiro micidiale. Questa volta invece tra idee logore ("Sexxx Dreams") e oltremodo kitsch ("Donatella"), il contenuto spesso si perde, lasciando cadere l'attenzione solo un contenitore stucchevole. 

Scivolate che finiscono con il pesare sul risultato complessivo, a dispetto di pezzi efficaci e ben costruiti, dall'energica "MANiCURE" alla ballata r'n'b "Do What U Want", passando per "Venus", dance pulita e melodicamente trascinante. Se volessimo considerare l'album nel suo sviluppo come un percorso, bisognerebbe individuare nel finale la prefigurazione di quello che potrebbe essere il prossimo futuro della popstar, con il piano e voce di "Dope" (intenso ma non ai livelli di una "Speechless"), l'intro semiacustica di "Gypsy" e il finale di "Applause", tirato e aggressivo soprattutto nell'inciso più che nel ritornello più canonico. Insomma, dove l'architettura diventa più scarna emergono le cose migliori.

L'aria che si respira alla fine è quella di un lavoro di passaggio, con Stefani Germanotta che fatica sempre più a trovarsi a suo agio con la maschera di Lady Gaga, al punto da cambiarne sembianze più volte al giorno. Prossimo appuntamento un album di standard swing in coppia con Tony Bennett: che sia lì la sua nuova strada?