Una grande famiglia con sottile sentore di sfiga
Il commento sulla seconda stagione della popolare fiction
A vederlo così, redivivo, nerovestito, sempre accigliato, con addosso più debiti di Ricucci ai bei tempi, mentre i genitori lo implorano «Edo, ci devi liberare da tutte le ombre» (see, campa cavallo...), Alessandro Gassman sembra un personaggio ottocentesco.
Anzi, di più. Nella seconda, strombazzatissima, stagione di Una grande famiglia (lunedì e venerdì, Raiuno prime time) Gassman tornato da finta morte inscenata per sottrarre sè e famiglia dalla vendetta degli strozzini cui deve 110 milioni, oltre ad evocare le catalettiche di Carolina Invernizio mi ricorda un po’ l’Adam Kadmon di Italiauno, uno che qualunque cosa faccia è sempre avvolta da un sottile sentore di sfiga.
Perché, rispetto all’aria più allegra nella vecchia serie, in questa nuova circolano tenebra e inquietudine, con tutti i loro simboli: la nebbia che avvolge i cattivi, la musica sinistra, i fari d’auto nella notte, le telefonate misteriose: «non sospettano nulla...», sussurra nel finale di puntata Gassman al telefono degli aguzzini, con i quali, ufficialmente dovrebbe aver estinto il debito dell’azienda Rengoni da Inverigo, specializzata in truciolati. Certo, poi, al solito autore-deus ex machina Ivan Cotroneo la Rai deve fare un monumento.
La regia di Riccardo Milani è virtuosa. I dialoghi filano anche con qualche elemento sdrammatizzante - l’outing del nipote gay al nonno open -minded, , la dichiarazione di matrimonio in pieno cda-. Gli attori sono allo zenith; su tutti Felberbaum, Cavina, Bergamaschi e Sandrelli deliziosa nella «proprietà transitiva delle mamme». Gassman si permette perfino di citare il padre Vittorio un paio di volte: mentre consegna al figlioletto il modellino dell’Aurelia del Sorpasso, e imitando l’accento del soldato Busacca, milanese nella Grande guerra di Monicelli.
Poi c’è sempre, appunto, quest’atmosfera che sai che dovrà succedere qualcosa di più terribile d’un figlio gay o di una liaison tra cognati, ma non sai cosa. É ciò che Hitchock chiamava il suspence, «la bomba sotto il tavolo». Sempre che, alla fine, non si riveli un petardo. Una cosa è inverosimile: un imprenditore pirla come Edo al nord sarebbe stato reso innocuo subito. Al limite l’avrebbero messo a capo di una fondazione. Invece qui torna, s’inventa la balla del rapimento, rende complice –ancora una volta- dei suoi piani scombiccherati il fratellino piccolo e con telefonate misteriose (un altro “non sospettano nulla...”) ci lascia un cliffhanger molto all’italiana…
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