Lou Reed, alchimista del rock
Ha mescolato la musica con l'arte, la poesia, le droghe, la sessualità: un mix pericoloso che aveva imparato a maneggiare
Avevamo visto Lou Reed l'ultima volta cinque anni fa a Milano, per un progetto affascinante quanto bizzarro. Agli Arcimboldi era andata in scena una trasposizione del "Cantico dei Cantici", forse il testo più rivoluzionario della Bibbia, incentrato sull'amore sensuale. Lou recitava in piedi e aveva di fronte a sè Laurie Anderson, l'ultima, amatissima, compagna di vita, in un crescendo emotivo e quasi carnale. Qualcosa di molto lontano dal resto del suo percorso artistico, fatto principalmete di rock e chitarre, ma specchio del suo desiderio di sperimentare, di battere vie nuove. "Transformer", non a caso, è il suo disco-manifesto prodotto ormai oltre quarant'anni fa da David Bowie, un altro che, ça va sans dire, ha la sindrome del camaleonte incisa nel dna.
Cresciuto nell'America perbenista degli anni '50, segnato da un elettroshock al quale qualche genio lo aveva sottoposto per curarlo (sic!) dalla bisessualità, Lou mostrò ben presto un animo inquieto, trasversale, curioso. L'esplosione sarebbe venuta nella metà degli anni '60 con il progetto Velvet Underground, uno dei nomi più belli che una band potesse darsi. C'è una New York pulsante, c'è Andy Warhol che si innamora del gruppo, lo finanzia e disegna la copertina -quella con la famosa banana- ci sono John Cale e Nico, e ci sono -soprattutto- dei pezzi che sono entrati nella storia della musica, a partire da "Sunday Morning", il cui attacco è la migliore fotografia acustica di una domenica mattina, allora come oggi.
Rock mescolato all'arte, alla poesia, alle droghe, alla sessualità, un mix tentatore quanto letale, se preso a dosi sbagliate. Lou Reed impara sul campo il mestiere dell'alchimista, gioca con la sua ambiguità, ama sorprendere e sorprendersi, struttura e destruttura parole e musiche.
Il gioco gli riesce negli anni a ritmi altalenanti, tocca il suo punto più alto proprio in quel "Transformer" che esibisce delle perle come "Walk on the Wild Side", "Satellite Of Love" e "Perfect Day", canzoni senza tempo e fuori dalle mode, che potrebbero essere state composte anche ieri.
Lou che pensavi fosse finito e che invece ritrovavi lì, con la sua andatura dinoccolata e col viso scavato dallo scorrere degli anni, a esibirsi dal vivo fino a quando ha potuto e a sperimentare cose nuove col rischio di prendersi le mazzate da pubblico e critica, com'era accaduto due anni fa per uno spiazzante (e per certi versi insensato) progetto con i Metallica.
Non amava rilasciare interviste, davanti ai giornalisti misurava il tempo e le parole. A chi gli chiedeva un bilancio della sua vita rispondeva "cerco di non guardare mai indietro". Magari senza volerlo aveva svelato il segreto dell'alchimista.
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