di Andrea Saronni
Due sintetizzatori, un basso, una voce già marchiata dal dono raro dell’unicità che usciva da un ragazzino allampanato, dal volto di bambino. Concerto - parola grossa - al sabato sera alla St.Nicholas School di Basildon, città satellite e triste di una Londra i cui tentacoli sembrano non finire mai. È il 14 giugno 1980, festa da fine delle lezioni. Un manifestino disegnato a mano e con i normografi dell’epoca annuncia che dalle 7.30 pm si farà della “Discotheque” con i “French Look” e i “Composition of Sound”. Questi ultimi sono tre ragazzi, uno leggermente più grande e sgamato, Vince Clark, gli altri due hanno 19 anni, si chiamano Martin Gore e Andrew Fletcher, sono ex alunni dell’istituto. Per l’occasione si sono decisi a selezionare un cantante, che è il topino di cui sopra, si chiama David Gahan...
Gahan ha appena compiuto 18 anni, e fino al confine estremo della sua prima performance sembra più che pentito di avere accettato. Ė nervoso come una scimmia, molte lattine di birra vengono sacrificate al debutto di una band forse unica nel suo genere, che entra nell’Olimpo del pop rock da una porta diversa da tutti gli altri.
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Eh sì, sono 40 anni anche per i Depeche Mode, nome suggerito dal neo-acquisto Dave e adottato per la prima volta dal 24 settembre dello stesso anno perché “il francese suona meglio”. Leggermente di cattivo auspicio pare il fatto che nell’annuncio sul Melody Maker del primo concerto con la nuova ragione sociale il Depeche diventi “Depache”, ma si sa che gli inglesi, troppo bene abituati, con le lingue degli altri non ci prendono molto. Tanto il risarcimento sarà enorme, con tutto il pianeta che, quattro decenni dopo quegli avventurati giorni in cui le radio britanniche cominciavano a passare le prime danze synth di “Photographic” e “Dreaming of me”, conosce benissimo i “Depeche”, o i DM, passati da molto tempo al rango di oggetto di culto per milioni di fan in tutto il mondo, qualcosa di più di una semplice affezione musicale, veramente una questione di “faith and devotion” come evoca il titolo del loro album più grande. Una porta diversa, si è scritto qualche riga sopra, perché ha rappresentato una terza via dell’immaginario giovanile fatto di chitarre, capelli lunghi e messaggi di ribellione o poesia (tutto il rock da Beatles-Rolling Stones in giù) oppure di lustrini, danza, look, video (Michael Jackson, Madonna et similia).
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La straordinarietà dei Depeche Mode è innanzitutto quella di essere evoluti portando nella loro musica la loro crescita umana, il passaggio dalla adolescenza alla gioventù fino alla maturità non perdendo mai, tuttavia, dei punti di riferimento in cui i seguaci persino della prima ora potessero ritrovarsi: l’elettronica, di cui sono tuttora i caposcuola, usata per creare un sound sempre modernissimo, al passo con i tempi. Poi, il songwriting di Martin Gore, buttato nella piscina della creazione senza sapere nuotare dal repentino addio di Vince Clark, che già nel 1981 mollerà i soci per fare gli Yazoo prima e gli Erasure poi. In acqua, Martin è diventato un Phelps, una Federica Pellegrini. Anche a dispetto del successo globale, è ancora oggi un autore forse sottovalutato, e se la sua musica è stata straordinaria, ecco, forse è perfino inferiore alle parole che dette sugli accordi, sul suono perfetto, hanno toccato le corde universali della sensibilità, dell’inquietudine, del disagio interiore che tutti, se si dà un’occhiata, hanno dentro.
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Sembra persino didascalico citare al volo le sue canzoni che hanno segnato questi 40 anni: però una per tutte, dai, che tutti conoscono, Enjoy the Silence. Che ti sei ritrovato a ballare scatenato in una discoteca e poi, magari, ad ascoltare solo, al buio e discretamente a pezzi in una stanza ricavandone sensazioni opposte e comunque fortissime. Chi ha saputo e sa scrivere così, ieri e oggi? È qui, in questi posti dell’anima, che i Depeche sono entrati nel profondo della gente non uscendone più.
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Parole, suoni e feeling cuciti intorno alla voce e al corpo di Dave Gahan, culto nel culto, frontman nato, animale da palco, il primo e l’unico a essere considerato una rockstar avendolo solo sfiorato, quel genere di musica. Ma come si sa, il rock è soprattutto un linguaggio anche fisico, un gesto che l’ex bimbo della St.Nicholas School ha fatto suo come pochissimi altri. Come i “professionisti” dello stardom, David ha contornato di sofferenze, eccessi, colpi di testa, protagonismi il suo cammino: morto - ma sul serio: rianimato dopo 3 minuti dall’overdose- nel 1996, ha saputo rinascere affermandosi persino come solista (bellissimo il suo “Hourglass”), imparando a vestirsi da solo nelle sue canzoni, nel suo lavoro. Ma la ditta non l’ha mai lasciata, anche se per il secondo strato degli appassionati - non certo i Devotioners - , Dave “è” i Depeche Mode. Ma lui sa che non è così. La partnership artistica e umana con Gore, e con Fletcher, da tempo ormai solo ingegnere della macchina DM, è ancora saldamente in piedi e ormai, arrivati ai 40, è un dato di fatto che come per gli Stones, gli U2 e compagnia cantante, i Depeche Mode rimarranno in piedi finché morte - solo musicale, anagrafica, per carità di Dio - non la separerà.
Avendo cominciato da topini, c’è ancora un bel pezzo di strada davanti, e vista la cifra dei protagonisti, si può essere certi che non si ridurrà già al riassunto delle puntate precedenti. Ci saranno ancora emozioni, e sound da cercare, trovare, comporre, come evocava quel nome sul manifestino a Basildon.