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La fine dei Beatles: 50 anni fa Paul McCartney certificava lo scioglimento della band

Il 10 aprile del 1970, annunciando l'uscita del suo primo album solista, Macca confermava di non avere alcun progetto futuro in serbo con il gruppo

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I read the news today, oh boy. Nel mondo già lontano di 50 anni fa, nel mondo - purtroppo o per fortuna - ancora privo del tempo reale, ci fu un titolo urlato in faccia alla mattina presto, lettere enormi su un giornale popolare. "Paul is quitting the Beatles", c’è scritto sul "Daily Mirror" del 10 aprile 1970. E se Paul lascia i Beatles, vuol dire che i Beatles sono proprio finiti.

Nelle righe dell’articolo, un comunicato stampa travestito da intervista, meglio definirla per quello che era, una auto-intervista. Dopo una serie di considerazioni sull’imminente uscita del primo album solista “McCartney”, il dialogo dei massimi sistemi: “Prevedi che verrà un tempo in cui Lennon-McCartney torneranno a collaborare nella scrittura dei pezzi?”. “No”. “Hai qualche progetto per apparire in pubblico dal vivo con i Beatles?”. “No”. “Il tuo allontanamento dai Beatles è temporaneo o permanente, dovuto a divergenze personali o musicali?”. “A divergenze personali ed economiche, ma soprattutto al fatto che sto meglio con la mia famiglia. Temporaneo o permanente? Non so”. “Hai in previsione un nuovo album o un singolo con i Beatles?”. “No”.

Mezzo secolo, come sappiamo tutti noi che di musica viviamo, in cui non c’è stato mai spazio per la retromarcia. Che poi il tempo vero di ripensamento è stato di 10 anni, fino al giorno in cui Lennon incontrò il suo tragico destino. L’unica reunion si è svolta in maniera fredda, distante, per qualcuno anche inopportuna. La voce remota e ricostruita di John in quel suo inedito tirato fuori dal cassetto e prodotto dagli altri tre per l’Anthology del 1994, “Free as a Bird”. Canzoncina minore, triste, buona giusto per rinfocolare il rimpianto di una storia senza pari nella musica del XX secolo. 

Quel 10 aprile fu una botta tremenda per una generazione, il fischio finale di qualcosa che andava molto oltre una vicenda artistica e di costume. Paul distruttore del sogno, Paul padre e padrone che soffoca la sua creatura e pensa solo a se stesso: questa fu la prima reazione, il pensiero basico del popolo beatlesiano che già in quella giornata si assiepò davanti al 3 di Savile Row, quartier generale della Apple, il palazzo del concerto sul tetto, per capirci. All’interno del building, il paradosso di George, che come se niente fosse rilascia un’intervista a una trasmissione religiosa della BBC parlando di meditazione, Krishna, Budda. Instant karma, davvero. McCartney colpevole, fu la sentenza di primo grado: e nessuno, forse, lesse attentamente le risposte di quel comunicato: un “no” secco e non argomentato a tutto con un’eccezione sull’addio definitivo, già virato in un “non so”, preceduto da una frase sulle divergenze anche economiche. La verità è che il banco era già saltato da quasi un anno, dalla fine delle registrazioni di "Abbey Road": e fu John Lennon, non McCartney, a comunicare agli altri la sua intenzione di lasciare, era il 20 settembre 1969. Notizia tenuta assolutamente nascosta in primis dallo stesso Lennon per la contemporanea trattativa in corso con la Capitol Records per la distribuzione dei loro dischi: c’erano in ballo milioni fondamentali per le dissestate casse della Apple, distrutte dall’assenza di un management professionale. E proprio sulla guida amministrativa si spaccò definitivamente il fronte degli ex-Fab, con Lennon - supportato da Harrison e Starr - che portò lo squalo Allen Klein (truffatore in larga scala dei Rolling Stones) e Paul che voleva a capo di tutto Lee Eastman, padre della neo-sposina Linda. Già la questione artistica e i personalismi sulle incisioni, sui pezzi avevano fatto danni pesanti: quando a tutto si sovrappose in maniera come sempre preponderante il fattore soldo, ciao Beatles. 

Ma nel 1970 uno, passato il momento di sconforto, avrebbe potuto pensare a un ciao, appunto. Non a un addio. Lo stesso Lennon, a gennaio, aveva in parte ritrattato, disse pubblicamente che “la band non si stava disgregando”, ma “stava disgregando la propria immagine”. Era un gruppo di menti iper logorato dallo stress, dai soldi, da ego difficili da contenere (e ti credo), dalle vicende personali e affettive, dalla droga, anche, almeno nel caso di John. Si trattava di fare passare la nottata, sfogarsi fuori con altri progetti, tirarsi fuori dai personaggi del Beatle Paul, Beatle Ringo, eccetera. Di tornare a suonare live, anche. Il loro dirimpettaio e (finto) rivale Keith Richards, esempio vivente di resistenza a qualsiasi situazione, ha amaramente considerato in più interviste che “avrebbero dovuto prendersi un paio di anni sabbatici, fare le loro cose e tornare. La musica avrebbe avuto tanto da guadagnarci”. Come ha ragione. Pensate a un album che avesse contenuto “Band on the run”, “Mind Games”, “Give me Love” di George. E i fiori sarebbero ancora cresciuti lavorando insieme. È andata così, tutto è rimasto fermo a quel titolo che compie 50 anni secchi , a quella decisione di non voltarsi indietro. Il vuoto più pieno della cultura popolare.

Andrea Saronni

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