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Silent Hill, quando la nebbia avvolse nel terrore la prima PlayStation

Ricordiamo la prima, spaventosa escursione di Konami nel mondo dei videogame horror

IGN

Già che in questi giorni si è tanto parlato delle serie di videogame firmate da Konami alla luce di varie voci di corridoio che le vorrebbero ora in mano a Sony, ora acquistate da Microsoft, l’occasione è buona per ricordare un importante videogame della software house giapponese che ha dato i natali a Pro Evolution Soccer e Castlevania. Stiamo parlando di Silent Hill, classe 1999, il primo vero tentativo di Konami di proporre un suo survival horror per rispondere all’enorme successo di Resident Evil.

Pubblicato in esclusiva per la prima PlayStation, il gioco è l’ennesima prova dell’eccellente rapporto che all’epoca legava Sony e Konami, una collaborazione che si è protratta fino ad oggi con la produzione di tanti videogame usciti esclusivamente sulle console della famiglia di PlayStation. Quando, all’epoca, capimmo prima con Alone in the Dark e poi con Resident Evil che i videogame potevano fare davvero tanta paura, intervenne il designer Keiichiro Toyama a spingere ulteriormente i videogame nei reami dell’orrore puro dando vita a Silent Hill.

Il gioco inizia con una premessa tipica da film horror, con un incidente automobilistico che lascia il povero Harry Mason ferito proprio all’entrata della misteriosa cittadina che dà il titolo al gioco. Peggio ancora, la figlioletta Cheryl che era in auto con lui sembra scomparsa nel nulla: a Harry non resta altro che incamminarsi per le nebbiose vie di Silent Hill per cercare di capire cosa sta accadendo. Una passeggiata che lo condurrà ben oltre le strade di un villaggio apparentemente abbandonato, fino a sfociare in risvolti paranormali davvero memorabili e raccapriccianti.

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Nel 1999 il gioco si presenta piuttosto bene con una tipica animazione pre-renderizzata - impreziosita dalle musiche di Akira Yamaoka - che introduce in modo intrigante la vicenda e soprattutto con un motore interamente tridimensionale - laddove il diretto avversario Resident Evil proponeva personaggi 3D su fondali bidimensionali. La grafica poligonale, seppure ovviamente rozza rispetto ai canoni odierni, era ben funzionale a dare vita alla vera star del gioco, ovvero lei, Silent Hill, avvolta nella sua nebbia perenne e capace di spaesare il giocatore facendolo sentire perennemente in pericolo.

Indimenticabili poi i tocchi di classe come la radio portatile che inizia a fare rumore ogni volta che qualcosa di “strano” si avvicina ad Harry e la “pesantezza” dei movimenti del protagonista, un uomo normale che affronta come può gli orrori che gli si parano davanti, al contrario di tanti personaggi super-addestrati incontrati in altri videogame.

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L’enfasi posta sugli scontri corpo a corpo - con le munizioni relegate al ruolo di bene prezioso da usare con parsimonia - costringe inoltre ad affrontare gli orribili pericoli che si parano davanti a Harry a distanza sgradevolmente ravvicinata: combattere in Silent Hill è sgradevole per lo meno quanto la cupa e sporca ambientazione.

Fenomenali per l’epoca anche le transizioni tra le due “dimensioni” della città - quella apparentemente reale e quella orribilmente contorta e arrugginita in cui si scivola sempre più spesso, nonché l’approfondimento psicologico dei personaggi e di aspetti dell’animo umano come il senso di colpa e il rimorso, che contribuiscono a rendere le vicende di Harry più cupe della stessa Silent Hill.

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Un gioco seminale per quanto riguarda le esperienze horror, che dal 1999 ha dato vita a una serie di ben otto capitoli “principali” e vari spin-off pubblicati su una varietà di piattaforme, l’ultimo nel 2004, ovvero quel deludente Silent Hill: Downpour che ad oggi risulta l’ultima escursione di Konami nel mondo contorto ideato da Toyama.

Con la speranza che le voci di corridoio relative ad un prossimo ritorno della saga - dopo il cancellato Silent Hills ad opera di Hideo Kojima, papà di Metal Gear - risultino fondate e che il ritorno a Silent Hill sia solo questione di mesi, magari proprio assieme al terzo film basato sulla serie e nuovamente ad opera di Christophe Ganz.

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