Un tempo sognavamo un futuro differente, un futuro remoto popolato di astronavi che vomitavano laser. E anche di eserciti maligni che meritavano qualsiasi raggio multicolore e smart bomb fosse possibile concepire. In Giappone, a ben vedere, di onde energetiche e navicelle impossibili ne creavano in continuazione. Il mercato dei videogiochi era ancora, in buona parte, il mercato degli sparatutto: eroi solitari, invisibili, rinchiusi in carlinghe scintillanti (idealmente), pronti a bucherellare centinaia di alieni, insettoni e robot di varia natura.
In questo ambito trova linfa vitale R-Type, uno dei maggiori successi di Irem e uno degli sparatutto più apprezzati e rispettati di ogni tempo. Un gioco che quel rispetto se lo guadagnò non tanto e non solo attraverso l’eleganza del level design o del sistema di gioco, quanto più con lo sguardo torvo dell’insegnante brutale. R-Type era ed è ancora oggi un percorso di dolore e penitenza, con il giocatore chiamato a non abbassare mai la guardia nemmeno per un istante.
Al di là dell’effettiva difficoltà, brutale ma poi non così sbilanciata rispetto a quanto si era abituati a vedere all’epoca, R-Type poteva comunque farsi forza su un gameplay di ottima caratura. A rapire l’attenzione era il “pod”, un’unità aggiuntiva che il giocatore poteva scegliere di collegare sul muso o sul retro della sua astronave. O anche di lasciare libera di fluttuare nei pressi dell’unità dell’eroe. A ogni modo si poteva ottenere un aumento della potenza di fuoco e uno scudo. Niente male.
Possente ed esaltante anche la possibilità di mantenere premuto il pulsante di fuoco per poter caricare un unico colpo, grande, grosso e devastante. Così facendo Irem chiedeva ai giocatori di smettere di premere furiosamente sul pulsante dedicato allo sparo, il che ai tempi equivaleva quasi a una bestemmia in chiesa. Eppure funzionava, rendendo R-Type non l’ennesimo sparatutto, ma un gioco tanto crudele quanto intelligente.
Dopo l’abbuffata di monetine in sala giochi e nei bar, il gioco conobbe una lunga stagione di conversioni. Alcune sorprendenti, come quella per ZX Spectrum o per Master System, altre prevedibilmente esaltanti (PC Engine). Ci fu tempo anche per una rilettura strizzata in una cartuccia per Game Boy. E anche lì blastare il maledetto impero Bydo era una goduria.