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La guerra lampo di Cabal, il gioco che ha cambiato il concetto di sparatutto

Una tempesta di piombo travolge le sale giochi nel 1988, quando fa il suo debutto l'opera prima del team giapponese TAD

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"Dare the danger", è lo slogan scelto per accompagnare il cabinato di Cabal nelle sale giochi di tutto il mondo. Se non ci sono certezze sulla correttezza sintattica, va un po’ meglio con il senso generale: osare, osare, osare. Osare sfidare ogni pericolo. A ben vedere di pericoli, nelle cinque ambientazioni di Cabal, ce ne sono a bizzeffe. Molti più di quanti un singolo eroe possa affrontarne, a meno di non essere il protagonista di un videogioco. O Bruce Willis.

Cabal è il gioco con cui debutta sul mercato TAD, piccola etichetta giapponese costituita da una manciata di fuoriusciti da Data East e che, sorprendentemente, darà alle stampe solo cinque titoli prima di chiudere i battenti dopo altrettanti anni. Una storia bruciante, in cui la squadra di Tadashi "TAD" Yokoyama dà tutto e porta a casa molto. I primi tre giochi vincono e convincono, tanto da essere rimasti saldamente ancorati nell’immaginario degli appassionati dell’epoca.

Dopo Cabal tocca a Toki, la scimmia che voleva vestirsi da Sir Arthur di Ghosts ‘n Goblins, quindi toccherà a Blood Bros, seguito polveroso e con la stellina da sceriffo proprio di Cabal. Ma se lì ci si muoveva per i saloon e le strade di una cittadina del vecchio West, in Cabal siamo dalle parti della giungla, delle spiagge e delle macerie tipiche di certi panorami di guerra.

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La prima versione del gioco viene accompagnata da una trackball, per un sistema di controllo che ben si adatta allo stile di Cabal e che, ai tempi, è tutt’altro che esotico. E se non avete idea di cose fosse una trackball non ce la caviamo nemmeno citando la pallina del mouse (“il mouse ha una pallina?!”, esatto, questo è il problema). In Cabal il soldato protagonista è gentilmente chiamato a far fuori altri soldati. E anche qualche fuoristrada. E dei carri armati. Poi ci sarebbero gli elicotteri. E una manciata di aerei. Pure quel sommergibile là in fondo, grazie.

Il sistema di movimento prevede che il nostro si sposti comodamente solo sull’asse orizzontale, in fondo alla schermata (fissa) di gioco. AI suoi spostamenti corrispondono quelli del mirino con cui decidere verso dove e chi fare fuoco. Se all’epoca una struttura simile poteva apparire un po’ macchinosa e tutt’altro che intuitiva, trent’anni di sparatutto in prima persona, con mirini ovunque e comunque, hanno reso il concetto molto meno strampalato. E comunque funzionava bene anche nel 1988, quando Cabal si fa vedere per la prima volta.

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Il bello del gioco di TAD è il suo tasso di distruzione, intimamente legato al game design e al level design. Ci sono edifici, sacchi di sabbia e protezioni assortite che possono riparare tanto il protagonista quanto i nemici. Vanno quindi protetti o sbriciolati a seconda della necessità e quando si sbriciola un intero hangar, oltre alla soddisfazione e allo spettacolo in pixel-o-rama, si “rischia” di vedersi assegnati un fucile o un mitragliatore. Armi decisamente più potenti di quella in dotazione. Da gestire con cura, invece, le granate, poche e fondamentali.

Era facile riconoscere chi sapeva davvero giocare a Cabal. Tanto per cominciare padroneggiava la tecnica della rotolata evasiva, strumento indispensabile per dribblare selve di pallottole. Poi perché iniziava a colpire maiali, infermieri e via di questo passo, dedicandosi a obiettivi apparentemente inoffensivi ma che, in realtà, garantivano succulenti bonus.

Oltre alle classiche conversioni per computer e console, Cabal diede vita al suo semi-sequel, già citato, e a una serie di imitatori. Ma il balletto di fine stage del gioco di TAD, così simile a certi “passi” del Lupin III televisivo, rimane inimitabile.

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