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Nel laboratorio che ha isolato il virus: ecco cosa hanno fatto le ricercatrici dell'ospedale Spallanzani 

Le 48 ore più frenetiche nell'istituto romano, dove un gruppo di scienziate (delle quali una è precaria) ha isolato, per la prima volta in Europa, il Coronavirus 

Ansa

Una trentina tra ricercatori e medici lavorano ogni giorno nel laboratorio di virologia dell'Istituto Spallanzani di Roma dove è stato isolato, per la prima volta in Europa, il nuovo coronavirus "2019-nCov". Le ultime 48 ore sono state più frenetiche del solito nel laboratorio del Padiglione Baglivi, dove ogni giorno arrivano da tutta Italia decine di campioni da analizzare. 

Un successo di squadra - Il team dell'istituto, da giovedì sera, dopo la scoperta dei primi due casi di infezione riscontrata in una coppia di turisti cinesi in vacanza a Roma, ha lavorato senza sosta per arrivare a isolare il virus. Un primo passo non solo per eventuali studi sul vaccino, ma anche per approntare terapie e test migliori e più rapidi. A capo del team c'è la dottoressa Maria Rosaria Capobianchi, 63 anni, venti dei quali passati nel laboratorio di virologia dell'ospedale capitolino di Via Portuense, che dirige con energia e tenacia: una squadra che già in passato ha isolato virus come Ebola e Chikungunya. "Avere a disposizione il virus - spiega, mentre pensa già al prossimo step del lavoro sul coronavirus  - è partire da una buona base per fare tutto quello che serve dopo", cioè "il sequenziamento del genoma che verrà presto completato e distribuito a livello internazionale per aiutare la lotta al coronavirus". Con lei Francesca Colavita, ricercatrice precaria e Concetta Castilletti.


L'isolamento del virus - Isolare un virus - spiegano gli esperti - vuol dire averlo in coltura cellulare per poter sequenziare il genoma, confrontandolo con altri e inserirlo nelle banche dati nazionali, per valutare eventuali differenze rispetto al virus che circola e mettere a punto test e vaccini. "Isolare il virus e il materiale di partenza iniziale per qualunque cura, - conferma la dottoressa Capobianchi - averlo a disposizione grazie a un sistema di crescita e di coltivazione in vitro, fornisce uno strumento per perfezionare le diagnosi, i test sierologici e la risposta delle persone all'infezione". Lo studio degli anticorpi rappresenta un aspetto fondamentale perché è la "risposta protettiva" dell'organismo ed è quindi il primo passo per un eventuale studio su un vaccino. "Inoltre avere un virus in coltura permette di provare farmaci in vitro - conclude la virologa dello Spallanzani - e studi di patogenesi, sui meccanismi di replicazione, i rapporti tra il virus e la cellula ospite e i casi di infezioni primarie e secondarie".
 

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