Dopo una tornata elettorale vinta trionfalmente, Boris Johnson è il titolare del numero 10 di Downing Street con un contratto blindato di (almeno) 5 anni. Un trionfo Tory annunciato dagli exit poll, e poi certificato dai risultati definitivi delle scrutinio reale: 365 seggi, con uno scarto di più 80 su tutte le altre forze messe insieme, e una percentuale del 43,6%: vicino ai massimi storici dell'era Thatcher. E ora la Brexit è davvero a un passo.
E mentre la regina Elisabetta II, al suo 14esimo primo ministro - in 93 anni di vita e 66 sul trono - da Winston Churchill in poi, gli ha conferito lo scettro formale dell'incarico, il Labour precipita a 203, con Jeremy Corbyn a cui resta solo la scelta del momento in cui dimettersi e le correnti interne già scatenate in una resa dei conti senza quartiere. Al palo tutti gli altri, eurofili LibDem della dimissionaria Jo Swinson in testa, a fare da baluardo appare solo la Scozia dominata dagli indipendentisti dell'Snp di Nicola Sturgeon che alla Camera dei Comuni di Londra potranno però fare solo opera di testimonianza con i loro 48 seggi: e dovranno spostare la battaglia - a meno di uno strappo costituzionale - sulla campagna per cercare di ottenere l'anelata rivincita referendaria sulla secessione.
Scenari che al momento BoJo può guardare con una certa condiscendenza. "Abbiamo provocato un terremoto con una vittoria storica e cambiato la mappa politica del Paese, dobbiamo cambiare il partito per essere all'altezza", proclama di fronte ai sostenitori. Per poi ribadire, nel discorso di vittoria indirizzato alla nazione dopo l'incontro con la sovrana a Buckingham Palace, di considerare il mandato ricevuto dagli elettori - anche in collegi del 'muro rosso' laburista dell'Inghilterra profonda e del Galles che i conservatori non avevano mai vinto in 100 anni e che lui ha invece sbriciolato qua e là in poche ore al suono dello slogan 'Get Brexit done' - "un mandato per la Brexit, che noi onoreremo entro il 31 gennaio".
Il percorso è segnato. La Camera dei Comuni tornerà a riunirsi lunedì, giovedì il governo affiderà alla regina la lettura del suo programma di legislatura in un nuovo Queen's Speech e venerdì farà ratificare in prima lettura la legge sulla Brexit, con annesso accordo di divorzio già raggiunto con Bruxelles. Quindi scatterà la pausa di Natale e a gennaio si completerà la ratifica. Ostacoli, numeri parlamentari alla mano, non se ne vedono più. Le incognite e le incertezze si rifletteranno semmai sul dopo, sui negoziati con i 27 sulle relazioni future e sulle intese di libero scambio a cui Boris punta, ma per le quali i tempi sono strettissimi: visto che la scadenza del periodo di transizione post-31 gennaio, con il temporaneo mantenimento dello status quo, è limitata alla fine del 2020. D'altronde c'è chi non esclude che Johnson possa dare a un certo punto prova di flessibilità e spregiudicatezza, vista la mega maggioranza su cui conta e le mani libere che adesso ha. Intanto, da premier rieletto, si prepara a un ritocco della compagine, rinviando il rimpasto vero a febbraio. E abbassa i toni della retorica, parlando delle necessità di "riconciliare il Paese", di ascoltare anche le sensibilità dell'elettorato pro Remain.
Per ora basta in effetti promettere vagamente tutto a tutti: la Brexit ai brexiteer, ma anche rapporti stretti con "gli amici europei"; "la fine dell'austerità", ma senza alzare le tasse; investimenti "prioritari alla sanità" pubblica, all'istruzione e alla sicurezza, ma anche conti in ordine. La sterlina nel frattempo vola, perché la stabilità politica e un governo conservatore ai mercati piacciono. Come non dispiace la fine dell'incertezza sulla Brexit, salutata pure dai leader di mezzo mondo. L'Ue di Ursula von der Leyen e i capi di governo europei - da Angela Merkel a Emmanuel Macron, da Giuseppe Conte fino all'irlandese Leo Varadkar - tendono tutti la mano a Boris, pur avvertendolo che il Regno diverrà "un concorrente" una volta fuori dal club. Mentre dagli Usa l'amico Donald Trump esulta per la "grandissima vittoria di Boris", evocando un patto di ferro commerciale angloamericano. E da Mosca si fa vivo persino il 'nemico' Vladimir Putin auspicando di poter ricucire quanto meno "un dialogo costruttivo": con un primo ministro che se non altro un nome russo lo ha.