Ieri abbiamo festeggiato i 25 anni di PlayStation. La prima console casalinga di Sony, l’indimenticabile scatoletta grigia dei sogni, arrivava nei negozi giapponesi il 3 dicembre 1994. Agli auguri della redazione aggiungo ovviamente i miei, che con PlayStation ho avuto un rapporto intenso, fatto di tanti momenti indimenticabili. Ma all’inizio non era tutto rose e fiori. Anzi.
Neanche la consideravo, la macchina Sony. E mi sbagliavo, certo, soprattutto alla luce di tutto ciò che c’è stato dopo tra noi. Ma all’epoca proprio non mi attirava neanche un po’, la nuova arrivata. Cerco di spiegarvi perché.
In quella prima metà degli anni ’90 ero un videogiocatore ormai maturo. Ancora giovane d’età, poco più che maggiorenne, ma con ormai alle spalle una dozzina d’anni da appassionato di intrattenimento digitale. Avevo già provato diverse piattaforme, dalle console con dentro i cloni di Pong all’Atari VCS 2600 dei miei cugini, dal Commodore 64, primo computer e prima macchina da gioco a entrare in casa mia, fino ai PC con Doom e Syndicate, passando per l’Amiga e le console di Nintendo e SEGA, che usavo a casa di amici.
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Se ve la devo raccontare più precisa, in quel dicembre del 1994 ero un fiero PCista. Ma le console mi piacevano, eh. Anzi, le invidiavo ai miei amici e approfittavo di qualsiasi momento possibile per invadere le loro case e divertirmi in loro compagnia. E con “loro” non mi riferisco più ai miei amici, ma a Mega Drive e SNES. Conoscevo e apprezzavo Nintendo e SEGA già dai tempi di NES e Master System e non avevo alcun dubbio nel considerare le due aziende giapponesi come le uniche in grado di rappresentare il meglio del mondo console.
L’arrivo di Sony con la sua PlayStation, al contrario, mi sembrava qualcosa di completamente fuori luogo. L’interesse di una grossa azienda a questo mondo dei videogiochi che cominciava a crescere, ma che – secondo me – non era accompagnato dalla giusta conoscenza del settore, dal giusto know-how, dalla giusta esperienza in materia. Mi viene troppo da ridere a pensarci adesso, ma era così. Accomunavo la PlayStation di Sony ai tentativi che c’erano stati in quegli stessi anni da parte del consorzio 3DO con la sua console universale o di Philips con il CD-i. Ebbene sì. Ai miei occhi, PlayStation era “quella roba lì”. Non c’entrava granché, coi videogiochi, secondo me. Che cantonata, mamma mia.
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Da un certo punto di vista, però, e in modo totalmente involontario, avevo ragione. In un certo senso PlayStation non c’entrava granché, coi videogiochi. Per lo meno per come venivano visti fino a quel 3 dicembre 1994. La console Sony, infatti, ha avuto un impatto talmente potente, col mondo dei videogiochi, da stravolgerlo completamente. Dalla metà degli anni ’90, infatti, quei “giochini per bambini e per nerd” sono diventati il passatempo preferito di una marea di persone che prima neanche li prendevano in considerazione.
Giovani, adulti, studenti, lavoratori, nerd, tamarri, single, fidanzati, famiglie, genitori, figli. Persone. Di qualsivoglia tipo. Tutti conoscevano la PlayStation. Che, in quel periodo, per molte di queste persone equivaleva a dire “i videogiochi”. E per qualcuno è così ancora oggi. Già, perché PlayStation, quella cosa che secondo me “coi videogame non c’entra niente”, ne è velocemente diventata sinonimo.
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Non c’è bisogno che ti chieda scusa oggi, cara PlayStation, perché l’ho fatto già all’epoca, pochi anni dopo il tuo arrivo, quando finalmente capii che non c’era altro da fare che affiancarti al mio PC da gioco, per poi eleggerti addirittura mia piattaforma prediletta, perché eri troppo più capace di intrattenere me e i miei amici insieme, oltre a farmi appassionare a una marea di giochi che su PC non c’erano. E oltre a sposare meravigliosamente il mio sempre crescente gusto per la “comodità videoludica”.
Poi, vabbe’, ho scritto tipo 92 editoriali consecutivi per quella che forse è stata la rivista mensile più amata proprio dai possessori di PlayStation, ovvero PSM, quindi figurati se non ci eravamo già abbondantemente chiariti. E adesso, che dire? Tu sei sempre più in forma. Ma neanch’io me la passo male, dai. Ho idea che ci divertiremo ancora per un bel po’.