8 ottobre 1963, studio del notaio Isidoro Chiarelli di Longarone, Belluno. Due clienti discutono i dettagli della cessione di alcuni terreni alle pendici di un piccolo monte delle Prealpi, chiamato Toc per la consistenza della sua roccia, franosa, poco compatta. Gli anziani dicono che il nome derivi da “patoc”, che nella parlata locale significa marcio. All’acquirente, l’ingegnere della società idroelettrica Sade Mario Cavinato, questo dettaglio non importa perché quei terreni sono destinati ad essere allagati esattamente 24 ore dopo. Stando alle ultime rivelazioni, in seguito a un’azione programmata.
A cinquant’anni dalla tragedia del Vajont, la figlia del notaio riapre uno dei capitoli più contrastati della vicenda, il ruolo della società che ha progettato la diga, ovvero la Sade. Come racconta a Il Gazzettino, in quell’ufficio suo padre avrebbe assistito a una conversazione tra due dirigenti dell'azienda, in cui rivelavano un piano per far crollare in modo controllato una frana che minacciava di staccarsi da un fianco del monte: “Facciamolo verso le 9-10 di sera, saranno tutti davanti alla tv, non se ne accorgeranno nemmeno. Avvisare la popolazione? Per carità, non creiamo allarmismi. Abbiamo fatto una simulazione, le onde saranno alte al massimo 30 metri”.
Secondo Francesca Chiarelli, furono queste le parole ascoltate dal padre, cui venne poi imposto di rispettare il segreto professionale se non voleva incorrere in pesanti ripercussioni. Ma lui non tacque. “Per quasi due anni non lavorò più, lo evitavano, ma non smise mai di farsi testimone di quel dialogo. Per questo ebbe molti problemi, pressioni, minacce. Soffriva perché nessuno gli aveva creduto”.
Stando alla ricostruzione del notaio, scomparso nel 2004, la Sade voleva affrettare i tempi per consegnare alla neonata Enel un’opera senza alcuna ombra che potesse sminuirne il valore. Solo che le onde scatenate dalla frana raggiunsero un'altezza dieci volte superiore alle previsioni, spazzando via un’intera vallata e le sue duemila vite. “La sera del disastro programmato - prosegue - mio padre ci fece vestire di tutto punto, pronti a scappare”. Nel clamore dell’anniversario, Francesca ha scelto di farsi carico di questa eredità, “per rendere onore al suo coraggio. E per chiarire che non fu una disgrazia: nostro padre lo chiamava eccidio”.