La poesia per immagini

La musica diventa segno che buca lo spazio

Il limite è il cielo nella mostra di Alfredo Rapetti Mogol

© Gianni Marussi|  "Oltre la parola dipinta" di Alfredo Rapetti Mogol allo Spazio Oberdan, Milano

Oltre la parola dipinta” di Alfredo Rapetti Mogol allo Spazio Oberdan, Milano.

"Il lavoro di Alfredo Rapetti Mogol è fatto di un segno veloce che si coagula in sottile scrittura. La sua ricerca è partita dalle opere su tela, ma da qualche anno a questa parte si è estesa a macchia d’olio incorporando materiali extra-pittorici e articolandosi in installazioni complesse che si allargano all’ambiente e fanno uso delle modulazioni plastiche del suono e della voce umana.

La sua poetica, che è divenuta sempre meno esclusiva e sempre più inclusiva, tende oggi a restituire il senso fluido, organico, contradditorio dell’esistenza: il suo continuo trapasso metamorfico, il suo costante e meraviglioso divenire, il senso ottimistico e tragico della sua vitalità. In questo modo la grafia minuta, che letteralmente graffia le superfici dei materiali, si è essa stessa disarticolata rispetto alle “pagine” più coese che apparivano fino a qualche anno fa e si è aperta in un gioco libero e pulsante di vita che si dilata all’intorno, si cancella, si spezza per ricominciare, si raccoglie in grumi di febbrile energia segnica per poi sfibrarsi e perdersi nell’azzurro cielo della sua palpitante metafora pittorica.

Non sorprende quindi che di questa ricerca versatile e dialettica entri a far parte il suono, che costituisce del resto per l’artista un orizzonte condiviso anche al di là della sua produzione pittorica, e che permette oggi alle sue immagini, già sfibrate dall’eclissarsi e dal riemergere del segno, di sfuggire a qualsiasi definizione statica della forma e della composizione.

Il suono in effetti è anch’esso forma in quanto occupa uno spazio e lo definisce. In questo lavoro la natura umana coincide col movimento della Natura in un complesso gioco di rimando di sensazioni, di impulsi e di emozioni, risuonanti in uno spazio abitato dalle frequenze di quegli stessi sentimenti: emozione, acqua, vento, parola, immagine e scrittura fusi insieme.

Gaston Bachelard ha del resto osservato che nella relazione tra spazio e immagine “la dualità del soggetto e dell’oggetto è irradiata, rifrangente, incessantemente attiva nelle sue inversioni”. Quelli messi in scena dall’artista milanese sono pertanto degli spazi dislocati e irradiati secondo una modalità visiva e uditiva che lega insieme immagini e sonorizzazioni.

Anche la scelta di intrecciare il lavoro a un canto sanscrito appare molto significativa: sanscrito significa proprio “mettere insieme” ed è considerato nella tradizione spirituale Vedica come la lingua dal suono perfetto, quello che ha una corrispondenza con ogni forma di manifestazione e che comprende in sé tutti i suoni del mondo manifesto. La pienezza della vibrazione del canto, così come l’altra sonorizzazione che apre la stanza al respiro della natura, suggeriscono anche un’altra osservazione, che dopo alcuni anni passati a seguire l’evoluzione del lavoro di Rapetti solo oggi mi appare in tutta evidenza: perché non leggere i suoi segni graffiti non solo come una forma di scrittura, ma come una particolare forma di tracciato sonoro, a cui accennerò fra poco?

In passato avevo scritto quanto questo fraseggiare astratto e disincarnato dal senso compiuto delle parole possedesse in realtà la valenza complessa di una simbolica lingua primordiale, un codice genetico alla base del linguaggio che diviene il simbolo di una storia culturale che partendo dal territorio circoscritto del vissuto dell’artista si estende a mostrarne la fittissima interrelazione col genere umano e con la sostanza della materia stessa.

L’arte realizza così una sua antica utopia, quella di fondare un territorio vergine, metalinguistico, dove instaurare un canale di comunicazione privilegiato in cui le pulsioni e la parola sono unite a mostrare tracce di materia pura, graffiti come reperti di memorie passate, aloni di pieni e di vuoti, residui di grafemi affioranti che vengono consegnati allo spettatore per ricordargli il suo essere parte di un tutto più ampio.

In passato avevo  già notato, quando ancora il suono non costituiva parte integrante dei lavori di Rapetti, come i grafemi in espansione/contrazione che fioriscono sulle sue superfici, sembrano scandire gli estremi dell’ampiezza di un suono inudibile ma dalle forme vibranti e mobili, riconnettendoci a un mito delle origini che ci riporta in contatto con un momento alfa della nostra identità e del nostro essere-nel mondo.

Oggi ancor di più l’accostamento al suono sembra calzante, così come l’intera costruzione compositiva che contraddistingue il lavoro di Rapetti fin dall’inizio si riconferma pulita, minimale, sobria, essenziale.
Perché dunque non pensare a questi segni non più soltanto come ad una scrittura, ma come a un tracciato fisiologico della registrazione del battito del cuore o dell’attività cerebrale?

Cuore e cervello, materia e idea, pulsione e concetto si riuniscono così ancora una volta nell’opera di Rapetti attraverso una metafora visiva che in questi ultimi lavori si rende anche sonora e che ci riporta di nuovo, seppur passando per un’altra strada, alla metafora dell’organico, del vivente, dello spazio abitato e costruito dall’essere umano.
Sempre Bachelard ha infatti evidenziato come lo spazio non sia solo una questione di vuoto e di pieno, di omogeneità o di dispersione, ma sia anche attraversato sottotraccia dai fantasmi di chi lo abita.

Così è lo spazio di Alfredo Rapetti Mogol, abitato dalle sue parvenze biologiche, sonore e dipinte, spesso solo accennate o trasfigurate, che rendono ogni sua opera una tabula rasa dove proiettare e far crescere la propria visione delle cose.
Per questo l’essenzialità compositiva che lo contraddistingue appare quanto mai funzionale alla potenza del messaggio che la sua opera riesce a convogliare: attraverso l’uso congiunto di immagine (spazio) e suono (tempo-durata), egli ci permette di abitare il limite, quello spazio esiziale in cui la sottrazione e la mancanza si rivelano in realtà come la condizione della ricchezza.

Da John Cage e dalle Neo-avanguardie fino agli artisti d’oggi, quelle opere che si avvalgono del sonoro introducono un’attesa e una sospensione delle difese che colgono lo spettatore di sorpresa, circondandolo da ogni parte e aggirando così l’invalicabile frontalità delle cose. Attraverso la vaporizzazione della forma visiva Alfredo Rapetti capovolge l’affermazione di Paul Klee secondo cui “L’arte rende visibile l’invisibile”. Il risultato di tale operazione sviluppa un nuovo tipo di contemplazione aperta a esperienze polisensoriali e all’integrazione nell’architettura dei luoghi.

Dopo questa esperienza il silenzio stesso in cui sono immerse le altre opere di Rapetti non appare più come un limite, come una mancanza, ma risuona invece di tutte le aperture che il discorso dell’artista sa offrire e diviene il miglior antidoto alla tendenza all’inerzia, a lasciare che i vocabolari si congelino dando forma a paesaggi mentali cristallizzati. Al contrario il lavoro dell’artista milanese, da sempre e con il rinnovato vigore di queste ultime prove, ci ricorda che se la condizione umana è abitata dal dialogo, anche quando questo significa introspezione, ed è esposta al mutamento e al divenire delle cose, essa manterrà sempre aperta la possibilità per la mente di rinascere continuamente a nuovi mondi simbolici, senza lasciare il tempo ai suoi pensieri di congelarsi o di avvizzire.

Il battito cardiaco registrato dalle sue scritture, che insistono su ogni dove, dal legno, al bitume, al cemento, alla tela, può quindi accelerare o rallentare, persino arrestarsi, ma non può smettere di manifestarsi e trovare nel dialogo l’humus ideale per connettere le radici della terra alle profondità insondabili del cielo.
Perché ovviamente se il limite è il cielo, il limite davvero non esiste più."

Ecco cosa racconta della mostra Gianluca Ranzi, il curatore.

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© Ufficio stampa

 Mogol Oltre la parola

Un'indicazione della sua dimensione, la mostra la dà subito. Niente didascalie! Ribadisce qui il percorso che deve essere emozionale e meditativo. Invita a prendere del tempo, dimenticare la fretta della città o la visione di opere e istallazioni che l'arte contemporanea ci ha portato a guardare frettolose, così dimentiche del senso estetico e pronte alla provocazione gridata nonché gratuita e alla fruizione in spazi di necessità grandi anche per confondere le acque e ribadire la non portabilità domestica.

In Alfredo Rapetti Mogol la scrittura trasforma le superfici, appare e dispare come nei graffiti preistorici. Suggerisce tracce, da seguire un po come cane da tartufo. Alcune sale sono abitate da suoni arcaici, dai linguaggi antichi al confine con il tempo. Acque fanno la loro presenza alla base di alcune opere, raccolte in contenitori di rame, diversamente colorati dalla reazione chimico-temporale.
Materiali diversi che spaziano da quelli più tradizionali al bitume, al cemento o fanno capolino da coperte.

Un'esplorazione della traccia. La scrittura buca la superficie dall'esterno e dall'interno, guadagnando una spazialità tridimensionale.
Riferimenti al modo Zen di vedere le cose del mondo, il passare del tempo in uno spazio rarefatto.

Quei segni, quelle cavità, quei rilievi, quei legni che lasciano intendere l'uso di tavole da taglio, quei tessuti consunti e ricchi di tracce anche di libri, si dipanano negli spazi in modo rigoroso e preciso. Pulito. Traspare dal lavoro di Rapetti un profondo senso di spiritualità e di sintesi meditativa, il ricordo della scrittura orientale che nell'energia del segno imprime il suo significato profondo. Ma Rapetti segue la sua strada e nel segno cerca un'altra modulazione.

Un allestimento impeccabile che si chiude con un elmetto bianco con una corona di spine. Forse il mondo che fuori ci attende.

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Alfredo Rapetti Mogol, Milano 1961. La sua formazione artistica risente del clima famigliare, dove da generazioni si respirano musica, letteratura, poesia. Giovanissimo, Rapetti è introdotto dal nonno materno, Alfredo De Pedrini, Presidente dell'Associazione Arti Grafiche, nell’ambiente artistico milanese, arrivando a maturare la passione per la pittura, alla quale si uniscono la formazione presso la Scuola del Fumetto a Milano, le collaborazioni in ambito editoriale, mentre l'esercizio pittorico viene sperimentato in diverse direzioni, destinate a confluire, nel 1996, nello studio degli artisti Alessandro Algardi e Mario Arlati che invitano Rapetti a condividere con loro la ricerca pittorica. Nell'atelier di Via Nota, Rapetti lavora quattro intensi anni, arrivando a maturare l’esigenza di coniugare le sue due più grandi passioni: la scrittura e la pittura, intendendole quali visualizzazioni del processo mentale e psicologico. Grazie ad una tecnica particolare, detta impuntura, l'azione del dipingere si fonde così con l'atto dello scrivere, e le parole iniziano ad essere segnate non solamente su fogli ma anche nelle tele.
Notevole l'attività espositiva, sia personale che collettiva dell'artista, instancabile come la sua opera sempre in viaggio fra l'Italia e il resto del mondo. Tra le sedi delle mostre collettive sono da ricordare il Museo della Permanente di Milano, nel 2002, il Salon d'Automne Parigi, Espace Charenton, nel mese di novembre 2004, il Mosca Mar’s contemporary art museum, Palazzo Strozzi a Firenze, il Riga Foreign Art Museum ed il Grand Palais di Parigi per la mostra “Comparaisons” nel solo 2006.
Tra le personali sono da citare: la Galleria Cà d’Oro a Roma, nel 2003; la Fondazione KPMG di Berlino, nello stesso anno; la Galleria Maretti Arte Monaco a Montecarlo e Villa Olmo a Como, nel 2004; L’Albergo delle Povere di Palermo, nel 2005, e l'anno successivo la Certosa di San Lorenzo a Padula, Salerno. Nel 2009 espone 80 opere al Palazzo della Ragione di Mantova. Nel 2010 con la Fondazione De Chirico espone in tre prestigiosi Musei e Università Statunitensi, come la N.Y. University e il Museo di scultura di Santa Monica L.A. e tiene una personale alla Fondazione Mudima a Milano.
Docente presso il Centro Europeo di Toscolano e nelle Università dell’immagine di Milano e New York, Rapetti è stato invitato a numerose conferenze e workshop: ricordiamo la sua relazione tenuta alla Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano, e l'insegnamento in occasione di Master dell’Università Cattolica di Milano e Master in Arte e Scrittura all’Università Luiss di Roma.
Dal 2004 entra a far parte del gruppo internazionale “Signes et Traces”, fondato da Riccardo Licata; fra i premi, ricordiamo l'“Etoile” per la pittura della Provincia di Roma. Nel 2007 espone alla 52° Biennale di Venezia, nel Padiglione della Repubblica Araba Siriana, in occasione della mostra "Sulle vie di Damasco" curata da Duccio Trombadori, e nel 2011 alla 54° Biennale di Venezia, “Padiglione Italia” curata da Vittorio Sgarbi. Sempre nel 2011 è invitato ad esporre alla 1° Edizione della Biennale di Brescia curata da Silvia Landi nelle sale del Museo del Piccolo Miglio. Tra il 2012/2013, diverse personali tra cui quella alla Galleria dell’Immagine del Comune di Rimini, alla Galleria Cà D’Oro di Miami e collettive al Castello Sforzesco di Milano, al Museo Crocetti di Roma, e sempre nella Capitale, nei Musei di San Salvatore in Lauro e nell’Auditorium Conciliazione.