"Non c'è niente di romantico nella cooperazione internazionale di oggi rispetto agli Anni '80, bisogna essere realisti". A un anno dalla scomparsa dell'attivista milanese Silvia Romano, rapita in Kenya il 20 novembre 2018, Tgcom24 a tu per tu con Cinzia Giudici, presidente del Coordinamento delle organizzazioni per il servizio volontario, che dal 1982 rappresenta con vari incarichi le Ong in numerosi ambiti istituzionali. "In questi decenni ho visto la situazione peggiorare con il moltiplicarsi infinito di guerre e un livello di tensione internazionale elevato, per varie cause". Ma l'Italia resta una fucina di operatori e volontari: ecco, allora, numeri alla mano, i consigli per svolgere la propria attività in totale sicurezza.
A un anno dalla scomparsa che idea si è fatta su Silvia Romano, basandosi anche sulla sua decennale esperienza nell'ambito della cooperazione internazionale?
"Alterno momenti di grande ottimismo ad altri minori, in base alle notizie che vengono diffuse. Il Kenya è un universo, la situazione sociale e politica cambia di regione in regione. Negli anni abbiamo assistito anche a rapimenti lunghi con il lieto fine, con trattative condotte con il massimo riserbo, come è giusto che sia. Ma personalmente Nairobi non mi è mai piaciuta, troppo violenta, troppo corrotta; per me è sempre stata la città di base per la Somalia (è lì che Silvia Romano sarebbe stata portata dopo il sequestro, ndr), Paese profondamente differente, non meno pericoloso, ma la società, seppure molto dura, era meno corrotta".
Come operava in Somalia?
"Si intrattenevano relazioni con i locali. Protagoniste erano donne molto forti, con un grande ascendente sui clan. A loro ci si affidava, in rapporti che diventavano di amicizia, ma anche di discussione; confronti spesso duri, per esempio su temi come l'infibulazione, che ci mettevano anche in crisi. Di questa esperienza professionale ho ricordi molto forti".
Ma nell'Italia di oggi quante Silvie, quanti Silvi, a 20 anni, sono pronti a fare un'esperienza professionale e umana del genere?
"L'argomento va affrontato su due livelli, quello di chi vuole fare della cooperazione una professione, dopo percorsi di studio mirati. In questo caso parliamo di 7mila italiani l'anno. Poi ci sono i volontari, coloro che sono disposti a donare anche solo un mese di vita per questa causa, a fare brevi esperienze: il loro numero, purtroppo, sfugge alla statistica ed è un problema, perché così sono invisibili a ogni possibilità di relazione e spesso si avventurano su terreni impervi senza la giusta preparazione e il dovuto sostegno strutturale per operare".
Come può avvenire ciò?
"E' purtroppo un problema nostro, anche delle organizzazioni strutturate. E' un problema di comunicazione poco incisiva. Dai volontari mi viene spesso detto che partire con organizzazioni strutturate toglie entusiasmo, immediatezza, spontaneità al gesto, perché bisogna muoversi con procedure, manuali di sicurezza... Questo pensiero è sbagliato: chi opera nella cooperazione internazionale deve poterlo fare azzerando i rischi, che sono tanti anche per i più esperti. Le organizzazioni non tolgono entusiasmo ma garantiscono livelli di sicurezza. Non bisogna andare nei campi di lavoro in maniera spontanea per aumentare la partecipazione. Non funziona così".
Quali motivazioni comuni e quali differenze muovono professionisti e volontari?
"Per entrambi ci vuole una motivazione molto forte, quella di lavorare in modo totalizzante. Ma è l'approccio a fare la differenza. Chi ne fa un mestiere dimostra anche un'approfondita conoscenza culturale, sociale del territorio in cui andrà a operare; ha un bagaglio di informazioni acquisito in master e corsi e ha una forte voglia di comprendere il contesto, Chi parte per brevi periodi ha più attenzione verso il quotidiano, la scuola dei bimbi, l'ospedale, e cerca di comprendere una realtà più circoscritta. Le differenze, poi, sono evidenti anche nelle tecniche di approccio e nelle conoscenze linguistiche".
Nel Cosv quanti professionisti e quanti volontari?
"Noi oggi operiamo in particolare in Medio Oriente solo con professionisti e personale locale; sono numerosi gli stagisti che formiamo, circa 25 l'anno. Con questo non voglio dire che il volontariato sia negativo, ma va inquadrato in un'organizzazione, anche piccola, ma comunque strutturata. Paradossalmente si incorre in rischi maggiori in situazioni marginali, in villaggi apparentemente tranquilli",
Che consigli si sente di dare a chi intende partire?
"Metto in guardia: non c'è niente di romantico nell'aiuto, bisogna essere realisti, fare i conti con se stessi. A chi vuole dare una mano come volontario, consiglio prima di fare un viaggio diverso dal solito rispetto al soggiorno in un villaggio turistico fuori dall'Italia. Suggerirei una vacanza un po' spartana. Ho visto troppi schiantarsi psicologicamente appena scesi dall'aereo. Perché non ci si reca nelle capitali o nelle grandi città, ma nei villaggi, in situazioni più disagiate e pericolose. Ecco, meglio se si è fatto l'Erasmus, per cui hai potuto acquisire l'arte di arrangiarti all'estero, di risolvere problemi che in contesti normali sono banali, ma che in certi posti alla lunga stressano. Ma non solo".
Cos'altro?
"Il primo consiglio resta quello di partire con associazioni strutturate dal punto di vista organizzativo, che impongano codici di sicurezza; sono quelle iscritte all'albo del ministero degli Esteri, passano controlli biennali, sono note, riconosciute, hanno relazioni locali con chi permette e agevola l'inserimento nei territori. Gli inconvenienti possono succedere a tutti, ma è sempre meglio non avventurarsi. Tra queste organizzazioni, poi, consiglio di scegliere quella più vicina al proprio domicilio, per poterla conoscere da vicino, per frequentare magari i suoi corsi specifici per volontari. Non mi stancherò mai di dire che bisogna stare attenti su dove, come e con chi si parte".